Capitolo 55 _ Michele

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Una settimana.
Sette giorni.
Centosessantotto ore.
Diecimila minuti.
Circa seicentomila secondi.
I numeri che segnano l'assenza di Gaia.

Tanti o pochi siano, sono passati così lentamente che mi sembrano un'eternità.

In apparenza sono forte, soprattutto per Rebecca, ma dentro è come se mi fossi annullato. Una figura che via via si è dissolta, definitivamente.

Fatico a dormire, e come un ossesso ripenso al mio stupido comportamento, alla nostra discussione futile.

Se solo avessi saputo sarebbe stata l'ultima volta che avrei potuto dirle ti amo, certamente non l'avrei dato per scontato.

Il buio intorno a me è soffocante, come il peso che mi porto sul cuore.
In preda al panico accendo di scatto l'abat-jour, non preoccupandomi del rumore che potrei fare e di svegliare Rebecca, perché forse anche lei non starà dormendo.

Prendo il cellulare e riascolto il messaggio in segreteria, per l'ennesima volta.
'Michele, non fare così. Ho esagerato, ok, ma sai che ci tengo alla sua disciplina. Comunque sei suo padre, hai tutto il diritto di scegliere cosa farle fare e cosa no. Spero solo che mi abbiate comprato un bellissimo regalo che possa giustificare la sua assenza a scuola, o che stiate preparando una cena coi fiocchi per darmi il ben tornata! Ma ti prego...non gli striscioni questa volta! Quelli non li sopporterei! Comunque richiamami, ti prego. Arriverò a Milano per le quattro di questo pomeriggio, e sto viaggiando su un intercity...
Michele, ti amo...e anche se abbiamo discusso inutilmente, ricordati che sei la cosa più bella che mi sia capitata nella mia vita... A dopo, amore.'

Ascolto il suo messaggio una, due, tre volte, e piango silenziosamente.
Nella mia mente la rivedo ridere, borbottare, giocare con Rebecca, mordersi il labbro inferiore, la sue espressione quando è concentrata sui suoi libri. Uno di questi è ancora posato sul suo comodino, e non ho intenzione al momento di toglierlo da lì.

Il silenzio è troppo rumoroso in questa stanza.

Mi alzo e mi avvicino alla cameretta di Rebecca. Provo ad ascoltare i suoni all'interno, ma non capisco se è sveglia o no, quindi mi incammino verso il letto.

Nella flebile luce che arriva dall'altro lato del corridoio scorgo la sua piccola sagoma sotto le lenzuola, e una volta vicino provo a spostarle delicatamente i capelli castano chiaro, identici a quelli di Gaia.

"Sono sveglia" dice a bassa voce, rannicchiandosi ancora di più su se stessa.
Stretto nelle braccia tiene l'orsacchiotto che aveva comprato felice per la mamma. Non lo lascia più dal giorno in cui Gaia non è più tornata, come se in questo peluche potesse avere una parte di lei, potesse abbracciarla.

"Non riesci ancora a dormire?"

Si volta piano, e poi muove la testa per confermare quanto le ho chiesto.

"So che ti manca, e manca tantissimo anche a me" una lacrima mi riga il viso, ma decido di continuare, devo farlo per lei.
"Però lei non vorrebbe vederci così, non sei d'accordo? È successa una cosa brutta, anzi...bruttissima, ma dobbiamo vivere anche per lei, perché sarà sempre qui con noi."

"Sì, ma io non la vedrò più! Non mi può più sgridare, non mi può più portare a scuola, o non mi allaccerà più le scarpe per non farmi perder tempo. E poi tu non riderai più. Già non fai più quello che facevi prima."
I singhiozzi non le permettono di proseguire. Capisco che vorrebbe avere delle risposte, capire perché è successo questo, ma non sono in grado di fornirle alcuna spiegazione, e il cuore mi fa ancora più male.

Mi sdraio al suo fianco e la stringo forte, insieme al peluche.

"Rebecca, è vero, ma dobbiamo trovare un modo per renderla felice, anche se è lassù in cielo. Lei vorrebbe questo per noi: la felicità. Tu potrai sempre parlarle, nel tuo cuore, farle arrivare le tue parole oltre le stelle, oltre il cielo."

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