XII. Immobile

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Hermione si piegò sulle ginocchia e le dita corsero a estrarre la bacchetta.

«Innerva

Nessun movimento del corpo riverso a terra rivelò gli effetti dell'incantesimo sperati.

Draco, accanto a lei, imitò la sua posizione e allungò un palmo verso il cappuccio che era scivolato a coprire il volto sul pavimento: era imbrattato di sangue fresco e lei fissò con gelido raccapriccio i suoi polpastrelli che si sporcavano. L'uomo che in passato aveva fatto proprio del sangue una questione vitale si mostrò imperturbabile mentre scostava il tessuto del mantello, scuro ma non abbastanza da nascondere le macchie. Anche i capelli bruni si erano inumiditi di tracce scarlatte e, quando con molta delicatezza Draco voltò quel viso, notò come le ferite deturpavano la pelle, sulla metà della faccia che poteva vedere.

Hermione riconobbe la studentessa di Corvonero che aveva consolato dai dispetti di Pix: i lineamenti infantili erano fissi e rilassati, come strappati a un sonno senza incubi, non presentavano l'espressione di dolore che avrebbe associato alle escoriazioni sul cranio. Steeval, la figlia di un suo compagno di scuola, ricordò.

«Innerva!» ripeté con più vigore, concentrando tutta la magia di cui disponeva nella mano con cui stringeva la bacchetta.

Draco posò due dita sul collo della giovane strega per valutarne il polso. Lei lo osservò, e quando lui le ritrasse incrociò il suo sguardo serio: l'uomo scosse la testa, piano, e una ruga di preoccupazione solcò la fronte pallida. Hermione rabbrividì.

I maghi nei dipinti alle pareti non smettevano di urlare. Lei non smetteva di farlo: «Innerva! Innerva

Myrtle Steeval restava nella sua fissità.

Draco le bloccò il polso con gentilezza e fermezza insieme; lo spostò di lato. Erano entrambi consapevoli che l'incantesimo poteva far ristabilire un mago da una perdita di coscienza solo se una coscienza era ancora rimasta.

Hermione si sentì terribilmente impotente, tenne la fronte con un palmo e vi affondò i polpastrelli. Le mura del castello che un tempo era stato palcoscenico di devastazione tornavano a vedere morte, ma quella volta la guerra era subdola.

Il professore si alzò in piedi e si pulì le mani con un incantesimo non verbale. Si accostò a una cornice – un cavaliere su un destriero bardato per un combattimento, sullo sfondo di una foresta – e ordinò: «Vai a chiamare la preside.» Mentre il protagonista della tela eseguiva lanciando al galoppo il cavallo, Draco si rivolse al ritratto accanto, intimando a una dama di avvertire Madama Chips in infermeria, e l'immagine della donna annuì solerte.

Hermione posò una mano dove era stata quella di lui, percependo sotto di essa la cute del collo immobile. La trascinò verso l'alto in una carezza, su una guancia, su una tempia, ravviando all'indietro una ciocca di capelli dalla fronte sporca di sangue. La portò sul busto morbido, coperto dal mantello della divisa, registrando senza sorpresa che non si sollevava al ritmo di un respiro che non esisteva più.

«Non spostiamola fino a che non arrivano» gli disse, con una calma che era propria della strega, dell'eroina di guerra, del Ministro. La madre piangeva, il dispiacere era inafferrabile – un'altra madre era ancora ignara.

Avvolto dal mantello, le mani nelle tasche, lui annuì. Si guardò in giro e l'indumento si mosse con lui: non c'erano altri umani nei dintorni.

Ritornò anche lei in posizione eretta e fissò le mani che si erano sporcate, ruotando i polsi con lentezza. Draco le si avvicinò, le loro spalle quasi si toccavano, e pronunciò con un filo di voce l'incantesimo con cui le ripulì. I palmi tornarono lindi, anche quando tracce vermiglie erano ancora intorno a loro, e lui ne strinse uno per un attimo.

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