tramonto

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       numero sconosciuto

Yoongi, tutto bene?

Sono Jimin...

Ti ho visto uscire di corsa dal Kobi's, sembravi pallido.

Yoongi?

Mi fai preoccupare

C'è qualcosa che posso fare?

Ti prego rispondimi

Vieni all'ospedale

Fu l'unico messaggio che Yoongi riuscì a inviare, prima che il semaforo diventasse di nuovo verde. L'ospedale era un po' più lontano dal paesino, quasi nel nulla, ma era una struttura affidabile e moderna. Era stato speranzoso quando sua madre era stata ricoverata lì, quasi due anni prima. Era uscita solo una volta, avevano passato qualche giorno insieme, poi aveva avuto una crisi e l'avevano riportata dentro. Quel giorno, qualcosa gli aveva detto che non sarebbe mai uscita.

Parcheggiò il motorino al primo posto che trovò. Chi era suo padre? Mah. Forse un criminale o forse un riccone che era sparito dopo aver messo incinta una ballerina. Sua madre si procurava da vivere girando Seoul per i locali più malfamati e danzando le più sporche e volgari coreografie. Il fumo era stata la sua unica via di fuga e Yoongi, per quante volte potesse rimproverarla, veniva costantemente ignorato.

Salì le scale che portavano alla porta principale. Poco tempo dopo essere entrato, un taxi parcheggiò proprio accanto al suo motorino, e dalla vettura uscì correndo un ragazzo.

Yoongi prese l'ascensore per andare al terzo piano, ma le porte si chiusero prima che Jimin potesse chiamare il suo nome. Non sapeva a che piano fosse diretto, quindi non gli restava altro che fare le scale, nella speranza di incontrarlo prima o poi.

E così successe. Dopo tre piani di scale, lo vide di fronte ad un corridoio. Lo affiancò. Non disse nulla. Glielo si leggeva in faccia che era sconvolto. Nonostante ciò, sapeva che si era accorto della sua presenza. Un'infermiera veniva verso di loro, era appena uscita da una stanza, una stanza che Yoongi conosceva bene. Il suo corpo venne attraversato da un freddo e potente brivido.

«Le faccio le mie condoglianze. Mi dica se ha portato per lei dei vestiti, dobbiamo vestirla prima del rigor mortis.»

Yoongi rispose con voce piatta e inespressiva che non aveva preferenze e che avrebbe lasciato tutto nelle loro mani. L'infermiera annuì, poi, come intimorita dallo sguardo del ragazzo, chiese sottovoce se volesse vederla un'ultima volta. Inizialmente Yoongi pensò che fosse il minimo che potesse fare ma poi vide degli infermieri portare un lettino fuori dalla stanza di sua madre. Sotto un velo bianco, si poteva vedere la sagoma di un volto di una donna.

Gli venne da vomitare e il suo corpo cominciò a tremare dall'orrore. La realtà lo aveva colpito come una lama in pieno stomaco.

Jimin lo prese per un braccio. - Usciamo, Yoongi.» disse, trovando un tono calmo. E lui lo fece, trascinato per un braccio da Jimin. I suoi occhi spalancati erano immersi nel vuoto, con una sola immagine a tormentargli la mente. Non si rese neanche conto di essere uscito.

Era quasi il tramonto e il sole era pronto a tuffarsi dietro le colline.

Yoongi si fermò quando fu nel parcheggio, si voltò a guardare l'ospedale. Sua madre aveva solo un figlio, quindi era ovvio che si sarebbe rivolti a lui per il funerale e tutto il resto. Era sicuro che non ce l'avrebbe fatta a sopportare tutto questo.

Le sue lacrime bagnarono il cemento grigio del parcheggio. Si era stampato nella mente i sorrisi di sua madre, rari come la pioggia nel deserto. Le sue risate quando Yoongi, ancora piccolo, provava a cucinarle qualcosa quando non riusciva ad alzarsi dal letto. Quando contava i centesimi per permettersi di comprargli i libri di scuola, quando si toglieva il cibo dal piatto pur di farlo mangiare un po' di più.

Andò a stringersi il cuore con le mani, per paura che potesse uscire, ma trovò il corpo di Jimin a proteggerlo. Le sue braccia gli avvolgevano la schiena e la sua mano era affondata nei suoi capelli neri. E cominciò a piangere. Tremare, singhiozzare e urlare. Jimin non si spostava di un millimetro, cercando anche lui di non piangere. Desiderò prendere un po' di quel dolore e fallo suo, trovava ingiusto che Yoongi dovesse affrontare tutto quello senza che nessuno potesse fare nulla.

Era fuori discussione che Yoongi guidasse per tornare a casa. Il motorino rosso rimase di fronte all'ospedale, per vegliare su sua madre.

Jimin ovviamente pagò il taxi e si allontanarono da quel posto col tramonto alle spalle. Una volta tornati al paesino, la vita sembrava non essere cambiata. I bambini giocavano nella piazzetta, aspettando la cena, gli anziani giocavano a carte sotto l'insegna di un bar, i giovani fumavano sotto un albero. Videro persino Jungkook bisticciare con qualcuno in un vicoletto e passarono di fronte al Kobi's. Yoongi non riusciva a sentirsi in colpa per aver lasciato il suo lavoro.

Arrivarono a destinazione e Jimin congedò l'autista. Yoongi non se ne accorse. Il suo sguardo era fisso su quel palazzetto di due piani trasandato.

«Resta con me, stanotte.» sussurrò, con la voce che tremava «Ti prego.»

Jimin lo aveva già deciso ancor prima che glielo chiedesse. Gli mise un braccio attorno alle spalle e non si staccò da lui finché non si trovarono all'interno di casa sua. Non era sporca, solo un po' umida. La maggior parte dell'arredo era in legno scuro, il pavimento a scacchiera e le pareti di un bianco quasi grigio. Era più grande della casa di Jimin, aveva più stanze.

Yoongi si sedette sul letto della sua camera, che affacciava sul lago. Il sole aveva quasi raggiunto la linea dell'acqua. Jimin lo vide nascondersi il viso tra le mani, in un vano tentativo di proteggersi e poi si inginocchiò di fronte a lui.

«Ci penso io, Yoongi. Farò e sarò tutto quello di cui avrai bisogno.» gli disse e il corvino alzò il volto. Una sfumatura di rosso contornava i suoi occhi e la sua pelle sembrava essere diventata ancora più bianca.

«Sii il mio angelo, Jimin.» sussurrò, poi andò a poggiare il suo capo esausto sulla sua spalla. Un ricordo accompagnò un sospiro.

«Aiutami, ti prego.»








Capitolo un po' triste ma ci tengo tanto perché molte emozioni sono esperienze personali e mi serviva metterle su bianco, così ho scelto questa storia, che si porta dietro molto di me.

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