28. Per nessun motivo al mondo

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Brook.

Ciò che aveva fatto per una settimana era ignorarmi. La vedevo, la furbetta, che controllava ogni mio movimento; eppure non dava la soddisfazione di parlarmi. Ero scappato, di nuovo, ero stato un coglione e aveva tutto il diritto di mandarmi a fanculo. Non riuscivo a credere che dopo Alicia sarei stato in grado di provare affetto per una ragazza, o che una ragazza provasse affetto per me. Che poi tutto ciò che sentivo nei confronti di Clare era completamente diverso da quello che avevo sentito per Alicia. Non riuscivo a capire perché mi desse così fastidio essere ignorato, ormai avrei dovuto farci il callo.

"Ma qui non è questione di fiducia, si parla di sentimenti" Mi aveva detto, e io ero completamente andato in tilt.

"Prima di te non mi sono mai fatta toccare da qualcuno se non fossi stata sicura che quella persona provasse qualcosa per me." Ebbe paura e ne aveva tutto il diritto. Sapevamo entrambi che non saremmo stati in grado di fermarci se avessimo dormito insieme un'altra notte, fu inutile negarlo. Io non l'avevo capito, avevo avuto paura da quella parola ed ero scappato.

Sentimenti.

Sapevo che lei fosse in grado di provare un sentimento per me, ma io? Io ero degno di sostenerla e adorarla senza scappare? La risposta era un no, più mi scervellavo a trovare un sì e più la testa mi suggeriva che quello era il mio modo di pensare: scappando.

Poi me la ritrovai in casa mia, con il fumo alle orecchie per aver sbattuto una porta. Era una scusa, per me non era la prima volta che sbattevo una porta, ma per lei era la prima volta che me ne chiudeva una in faccia. Fu più doloroso della decisione di Mark e Fiona di non contattarmi più, fu più deludente di non ricordare più il volto di mia mamma, fu più logorante di aver perso l'uso delle gambe. Fu tutto molto di più perché le cose sopraelencate sapevo che prima o poi fossero arrivate. Da quando l'avevo conosciuta ci volle quell'episodio a farmi capire che amavo essere partecipe della sua vita, in un modo o nell'altro. Quando chiacchierava con i ragazzi e raccontava loro del più e del meno, era solita spiegare i suoi desideri e i suoi progetti. Io la ascoltavo, apparentemente senza interesse, ma quando tornavo a casa sapevo quali erano i suoi programmi. Da una settimana non sapevo più nulla. Era vicina alla sua laurea, che sapevo quanto avesse faticato ad ottenere, tra il lavoro e altre faccende, ed ero l'ultimo ad averlo saputo.

Forse perché sei scappato?

Scesi dall'auto. Uno dei volontari del residence mi aveva accompagnato allo studio del dottor Johnson. Avevo volontariamente scelto di non essere più in cura da quello stronzo di Hemilton e da Mark. La sera prima ero entrato nello studio di quest'ultimo e avevo preso tutte le cartelle cliniche, dall'incidente in poi.

Il dottor Johnson era piuttosto giovane, uno dei migliori dottori del Sud Carolina. Aveva un piccolo studio al Greenville Memorial Hospital, che distava dieci minuti dal St. Francis Downtown, l'ospedale che si occupava di curare gli americani feriti in guerra.

Quando venne il mio turno, ero piuttosto nervoso. Matt, che mi accompagnava sempre in questo tipo di situazioni, quel giorno non poté esserci. Inoltre era l'unico a sapere dove fossi perché non avevo comunicato a nessuna la mia scelta.

"Salve Signor Carlton." Il dottor Johnson mi strinse la mano salutandomi con un sorriso cordiale. Era la prima volta che mi sottoponevo a una visita ortopedica senza che ponessi la solita domanda: cosa posso fare per tornare a camminare? Ero in uno studio medico, con la consapevolezza che non avrei più camminato.

"Salve." Mi asciugai i palmi della mano sulle ginocchia.

"Mi dia pure la sua cartella clinica." Avevamo parlato per telefono, sapeva già cosa ero venuto a fare.

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