La Dea

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L'indifferente Sole era sorto sulla città di Alcyone.

Mintaka, Muliphein, Zadok e gli altri sopravvissuti attendevano l'arrivo degli invitati al funerale dell'Imperatore.

Non proferivano parola. Erano stanchi, sconfitti, umiliati. La vicinanza non poteva frenare il senso di colpa.

Erano state giornate terribili, in cui la giovane lady si era rinchiusa a piangere in camera. Acrux, paragonato agli dèi, era caduto. Come poteva guardare la sorella in faccia? Come poteva dirle che Acrux era morto sotto i suoi occhi e non era stata neanche in grado di uccidere quell'orrido mostro che aveva riso sguaiatamente? 

Non era nemmeno riuscita ad arrecare una piccola ferita all'Empusa Rossa. Quando l'aveva vista era rimasta paralizzata. Aveva pensato più volte di salvarsi dalla vergogna con un dignitoso suicidio. Il coraggio, però, le era mancato.

Strinse il braccio di Muliphein, turbato quanto lei. La barba era incolta, la schiena gobba. Erano morti migliaia di soldati, altrettanti avevano disertato, ucciso civili e saccheggiato. Zadok, l'uomo che amava, non solo era stato sconfitto dopo anni di preparazione. Aveva perfino perso un braccio e non c'era magia che potesse ridarglielo.

Gienah, Sabik e gli altri collaboratori erano ugualmente cupi. Crederci davvero, agire con intelligenza e dare tutto ciò che avevano era stato vano. Gienah, in particolare, aveva cercato di fracassare il cranio ad Alioth Dabih, il giovane nobile a cui imputava il fallimento dell'ultima resistenza. Attorno a lui si era creato un vuoto che il solo zio non poteva riempire.

Al danno si era aggiunta la beffa: dopo che il cocito aveva abbattuto la statua ed era penetrato, dei battaglioni, comandati dal mastro gladiatore Thuban e da un nobilotto di nome Alioth Atlas, gli avevano dato il colpo di grazia.

Un disastro. Non c'era altro modo per definire l'esito.

Una campana annunciò l'arrivo delle arche. I tre regnanti - Alnilam, Bellatrix e Rigel - si sarebbero presentati per rendere omaggio al più grande eroe dell'Impero.

Le trombe squillarono, gli stendardi garrirono: coperte di un unguento scuro, le navi volanti parevano delle nubi temporalesche. Spararono delle cannonate a salve, in segno di saluto, e atterrarono.

I ponti calarono e Mintaka si nascose parzialmente dietro Muliphein. Sentì i passi e Alnilam si affacciò. La giovane lady si sarebbe aspettata di ritrovarsi di fronte una maschera di collera, invece, benché avesse tentato di nasconderla col trucco, era di tristezza. La camminata era irrigidita, le mani nascoste sotto al kimono, la testa compiva movimenti impercettibili a un comune mortale, come se la corona fosse troppo dolorosa da reggere.

Alnilam si fermò davanti a loro. I suoi occhi erano tinti di una sfumatura di rosso.

Per interrompere quel cupo silenzio, Mintaka e Muliphein eseguirono il saluto con voci tremanti.

Alnilam non rispose e continuò a fissarli, mettendoli dinnanzi alle loro colpe. «Sono lieta che almeno voi stiate bene». Lo aveva detto con un filo di voce in cui era risuonata una nota di rabbia controllata.

La giovane lady era convinta che la sorella la odiasse ancor di più. Per la seconda volta era sopravvissuta al massacro in cui Alnilam aveva perso chi amava davvero. Il patimento non era per lei, Muliphein, Zadok e gli altri, bensì per Acrux.

Delle urla coprirono i suoi pensieri: re Rigel stava rimproverando rumorosamente Dabih e lo zio di questi. «Siete degradati, finirete in prima linea coi popolani, i vostri nomi saranno cancellati! Tu non sei mio figlio e tu non sei mio nipote!»

Thuban dei Megrez andò loro incontro. Spinse a terra Dabih e strinse calorosamente la mano al re degli Alioth.

La regina Bellatrix, invece, aveva salutato Gienah e si era presentata a lord Zadok, al quale stava facendo le sue più sentite condoglianze.

L'avvento dell'ImperatriceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora