Capitolo 9

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Mattia

«Dove sei stato ieri sera?» il desiderio di sbattere con la testa contro un muro ripetutamente cominciò per me a farsi molto allettante non appena sentii la voce di mio padre prima di uscire.

Dopo l'estate d'inferno che avevo passato mi faceva spesso quell'effetto.

Richiusi la porta d'ingresso e mi voltai verso di lui, trovandolo comodamente seduto sul nostro divano di pelle con un quotidiano fra le mani.

«Sono andato a mangiare fuori con Fabio. Non pensavo ti importasse» gli risposi, sistemando meglio il mio zaino sulla spalla.

«Hai bevuto? Come siete tornati?»

Mi morsi l'interno guancia per trattenermi dal dire cose che sicuramente mi avrebbero rovinato del tutto la giornata e gli spiegai tutto con molta calma.

«No, non ho bevuto. Ma non dovrebbe essere un problema se lo avessi fatto, dato che non sono un'alcolista nel caso non l'avessi capito. E comunque so divertirmi anche di più da sobrio. A tornare sono tornato con l'auto di Fabio. Lui aveva bevuto, sì, quindi ho guidato io. Se più tardi lo vedi scendere le scale è perché l'ho fatto dormire qui dato che non era in grado di tornare da solo a casa. Non l'hai vista la sua macchina in garage?»

«Pensavo avessi rubato anche quella» girò la pagina del quotidiano, disinteressato.

Che avessi lo stesso carattere di mio padre non era un mistero, ma con quella risposta fui costretto ad accettarlo del tutto.

«Tu non mi perdonerai mai, vero?» mi lasciai sfuggire, deglutendo. Sperai in una risposta che non mi avrebbe fatto male, ma sbagliai.

Ero stato stupido.

«Non lo so, Mattia. Hai ancora intenzione di rubare una macchina da un autonoleggio lasciandogli cinquecento euro pensando di essere il padrone del mondo per poi far guidare uno dei tuoi stupidi amici che a malapena riuscivano a mettere insieme due parole e causare un maledetto incidente? Dimmi».

Peso sul petto.

Volevo dirgli finalmente che non volevo più sentirmi ripetere quella storia come punizione. Volevo dirgli che ci stavo male già di mio e che non c'era bisogno che mi rinfacciasse che mi ero comportato da idiota un giorno sì e l'altro pure. Volevo dirgli che mi mancava mio padre, quello che era fiero di me nonostante fossi un vero stronzo con tutto il resto del mondo a causa della pressione che mi metteva lui stesso addosso da quando ero bambino. Volevo dirgli che mi mancava mangiare con loro a tavola e che non gli avrei mai più causato una vergogna del genere.

«Va a lavorare e torna stasera. Oggi resterò a casa e non voglio vederti» ma dopo quella frase non riuscii a farlo.

Mi odiava. Mio padre mi odiava davvero e io odiavo lui. Molto più di quanto volessi.

Non gli risposi e uscii di casa, in silenzio. Sapevo che era molto meglio così.

Sbattei il cancello della villa con forza e mi avviai verso la caffetteria. Presi il mio telefono fra le mani e andai nella galleria per guardare l'unico screenshot che mi ricordava che non ero un totale idiota.

Ero ridotto a quello per tenere a bada la mia rabbia. Mi sentivo stupido nel farlo, ma mi faceva stare bene.

Ava, due sere prima, aveva messo una storia insieme a quell'esserino. La scritta diceva "My angel" con un cuore.

Sentii i miei occhi inumidirsi mentre la guardavo per l'ennesima volta.

Una cosa buona la stavo facendo, stavo rendendo la vita di quella ragazza, rimasta senza suo padre a causa mia, meno insopportabile.

Small Steps, il primo caffè è sempre da buttareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora