La Festa di Litha

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Alle otto di sera vi fu il tramonto.

Stavamo scendendo le gradinate, diretti alla piazza dove si sarebbe tenuta la festa, quando la scala di marmo bianco si incendiò di oro e di arancio.

Ci voltammo tutti verso il mare e là, all'orizzonte, trovammo il sole scivolare placidamente nell'acqua. Il cielo si tinse di rosso, di rosa e di viola, e io mi resi conto di quanto i colori apparissero più vividi e brillanti in quel mondo rispetto al mio.

«È spettacolare» commentò mia nonna, portandosi la mano al petto con emozione.

«Mai quanto te, mia leggiadra accompagnatrice» la prese in giro Solamh, ammiccando all'abito che Daghain era stata costretta ad indossare.

Quel pomeriggio, infatti, dopo un luculliano pranzo a base di pesce e molluschi, era arrivata una fata con le orecchie pelose come quelle di un gatto e una lunga coda striata, e ci aveva invitati a seguirla nelle stanze per gli ospiti. Ci aveva quindi cacciati a forza nei bagni, sostenendo che puzzassimo di "viaggio e di carbone", intimandoci di fare un bagno e di strofinarci fino ad avere la pelle in fiamme.

Quando infine avevamo finito di strigliarci per bene, la fata ci aveva ficcato fra le braccia un abito ciascuno, borbottando circa le difficoltà che aveva incontrato nel reperire dei vestiti della nostra taglia in così poco tempo, e se ne era andata rapida com'era apparsa.

Gli abiti che ci aveva procurato erano molto simili fra di loro: erano tutti lunghe tuniche, proprio come quelle del Principe, con profondi scolli, veli e spille.

Il mio era di un blu profondo, quasi nero, e aveva una vertiginosa scollatura all'altezza dei seni. Non appena ebbi indossato l'abito mi venne voglia di coprirmi con una tenda, sentimento che venne accentuato notevolmente non appena ebbi posato gli occhi su Grania e Neacht. La prima indossava una tunica verde oliva, mentre la seconda ne indossava una rosso fuoco... ed entrambe risultavano essere esplosive nei rispettivi abiti.

Io mi ero sentita talmente in imbarazzo che non mi ero nemmeno voluta guardare allo specchio, e avevo lasciato che fosse Neacht a truccarmi leggermente con l'ombretto e il mascara che si era portata dietro dalla nave.

Mi era stato però di consolazione vedere mia nonna, da sempre amante dei colori pastello, stretta in uno striminzito abito a collo alto di un intenso rosa shocking. Dal modo in cui Daghain aveva osservato la sua figura riflessa allo specchio, avevo compreso che stava odiando ogni singola cucitura della tunica, e me ne ero compiaciuta.

Quando infine avevamo raggiunto i ragazzi in corridoio, per poco non ero morta stecchita sotto i violenti colpi di una tosse nervosa.

Rían e Solamh indossavano tuniche molto sobrie – il primo di un tenue azzurro polvere e il secondo di un grigio polvere – fermate sul petto con minuscole spille argentee che davano un tocco di luce all'insieme. Erano belle, sì, ma nulla a che vedere con gli abiti di Labhraidh: egli era... era uno schianto.

«Indovina un po' chi ha fatto colpo sulla fata che ci ha portato i vestiti?» mi aveva domandato sarcasticamente Solamh, intercettando lo sguardo meravigliato con il quale stavo osservando il mio migliore amico. Labhraidh indossava una tunica monospalla di un caldo bianco panna, fermata sul petto da una spilla d'oro grossa quanto il mio pugno, e le sue braccia muscolose erano coperte da un leggero drappeggio rosso, fissato con due sottili catenelle a livello delle clavicole. I suoi piedi erano scalzi, ma le sue caviglie erano state agghindate con cavigliere e campanellini dorati, com'era usanza nel popolo di Falias, e un filo d'oro gli era stato intrecciato fra i capelli scuri e mossi.

«Sei uno schianto» gli avevo detto, strizzandogli l'occhiolino e guadagnandomi un'alzata del dito medio.

Avevo sbuffato divertita, però avevo aggiunto: «Sono seria, Labhraidh. Sembri un... un centurione romano, sì».

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