7) ORSA MAGGIORE

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La primavera aveva tinto i ciliegi che affiancavano il tortuoso viale che conduceva a scuola di un rosa delicato, incerto, mentre gli albicocchi sprigionavano fieri il loro candido bianco, soffuso da qualche discreta sfumatura ombrata. Mentre mi dirigevo verso la scuola complementare, rimuginavo sul quadrimestre appena trascorso.

Era stato molto meno insidioso e spiacevole del previsto. Le arpie avevano seguitato a perseguitarmi, ma quei rari episodi non erano diventati altro che insignificanti fastidi, di fronte alla prospettiva di trascorrere ogni pomeriggio con Alberto. Quando ripensavo a lui, persino il delicato rosa che tingeva i ciliegi mi pareva talmente vivace da risultare accecante. Non ero innamorata, no. Non lo sono mai stata. Ero ammaliata. Inebriata da quella pura ebrezza che sprigionava la nostra amicizia, incantata da quella segreta e tacita armonia che legava indissolubilmente le nostre anime. Non avevo mai avuto un amico, io. Non uno ipocrita, non uno egoista, non uno vero. Non sapevo neppure cosa significasse la parola "amicizia" a quel tempo. Ero stata costantemente emarginata, allontanata dai miei coetanei, derisa, e tutto ciò che più di vicino avevo avuto a un amico era stata mia madre. Però era diverso. Con mia madre non potevo confidarmi sulle crudeltà che mi riservava Morgan assieme alle sue compagne, perché sarebbe filata dritta a discorrerne con la Castelli, mentre Alberto si limitava a darmi consigli che ben presto si rivelavano fruttuosi. 

All'inizio, quando mi aprii per la prima volta con lui su queste ingiustizie, scaraventò per terra la sedia su cui era seduto e spalancò la porta, deciso a correre all'istante da Morgan e darle qualche bella lezione. Dopo qualche tentativo, però, ero presto riuscita a farlo ragionare, e così aveva iniziato a elargire i suoi preziosissimi consigli. Non volevo dimostrarmi debole agli occhi delle arpie, immatura e bisognosa di spalleggiamenti tanto quanto loro. Avrei dovuto risolverlo da sola. 

Iniziai a ostentare la mia condizione, cessando di vivere nell'ombra. Rimanevo sempre taciturna, nel timore che ciò che stavo vivendo fosse un'allucinazione, per confondermi con l'anonimo travertino che mi circondava, però, in loro presenza, mi divertivo a terrorizzarle, andando loro incontro gridando: «Dio vi punirà, serve di Satana!», e rincorrendole con sguardo diabolico. Dopo qualche settimana dall'inizio dell'adottamento di questa pratica terapeutica, avevano smesso di formicolarmi attorno. Tuttavia, i miei deliri non erano affatto venuti a mancare, almeno secondo Alberto. Circa due volte a pomeriggio infatti sosteneva che io mi fossi addormentata e avessi fatto un incubo, e ormai avevo capito essere quella la sua tecnica per tentare di riportarmi alla realtà e farmi comprendere che quello appena apparsomi non era affatto reale. Tuttavia, non riuscivo a convincermene. I messaggi alieni si fecero sempre più frequenti e indecifrabili, mentre i loro discorsi più sensati ed esaustivi. Non poteva essere semplicemente frutto di una malattia. Doveva essere reale. Magari ero la Prescelta, per interpretare quei messaggi criptati, così come spesso Dio mi assicurava. Tuttavia non avevo mezzi per accertarmene, poiché ero stata ben attenta a non condividere quelle mie opinioni con nessuno, neppure con Alberto o la mamma. Almeno fino a quel momento.

Quel pomeriggio, infatti, mentre studiavo italiano assieme al mio giovane e fedele amico, irruppi, di getto: «Sai, Alberto, in verità c'è una sola cosa che non ho mai condiviso con te». Lui si fece scuro in volto, non seppi dire se apparisse offeso o deluso, oppure stizzito, o ancora preoccupato, o molto più probabilmente tutte quelle emozioni abitarono il suo volto contemporaneamente. Riuscì a recuperare il ritegno in men che non si dica. Con la fronte ancora corrucciata e lievissime rughe che gli solcavano il volto liscio e giovane, mi chiese, con fare fintamente disinvolto, mentre intanto giocava nervosamente con la penna che stringeva in mano: «Cosa?».

«Messaggi criptati. In verità, ho sempre sperato che tu potessi aiutarmi a decifrarli. Credevo avessero a che fare con il latino o con il greco, invece no. Ho tentato con l'alfabeto morse, quello muto, ho provato a farli corrispondere a delle coordinate geografiche o a pagine di tomi che tengo a casa oppure che sono custoditi in biblioteca... Ma nulla da fare. Mi chiedevo se tu riuscissi ad attribuirgli un senso», spiegai concitata, e, nel frattempo, estrassi con circospezione il plico di fogli che custodivo con smaniosa gelosia, porgendoglielo. In tutta risposta, egli lo afferrò con sfrenata, quasi violenta impazienza, divorando quei simboli arcani con lo sguardo trepidante. Non ebbi il tempo di chiedergli cosa gli stessero suggerendo quelle immagini, che subito si alzò di scatto, si diresse verso la libreria del salone e, in pochi attimi, tornò con in mano un piccolo libro sottile e all'apparenza molto antico, con le pagine ingiallite. Rizzandosi gli occhiali spessi sul naso e grattandosi il mento, assorto, sfogliò freneticamente le pagine, una vena di folle curiosità che avanzava sempre più prepotentemente nel suo sguardo cogitabondo e smanioso, quello stesso interesse che prese a sollecitare la mia mente, solleticando fastidiosamente una parte di me.

«Quindi?», domandai perciò. In tutta risposta, egli si soffermò a lungo su una pagina malridotta, dalle estremità ripiegate e punteggiata da qualche macchia d'inchiostro, che qua e là impediva la visione di ciò che v'era scritto nel paragrafo sottostante a una figura. Per fortuna, però, pareva che ad Alberto interessasse solo quell'immagine che ritraeva proprio la combinazione di come mi erano apparsi quei simboli in cielo.

«Hai mai visto questo?», mi chiese infatti, indicando quella strana composizione. Scossi flebilmente la testa, perplessa e disorientata.

«È una costellazione», mi spiegò. Il solco che avevo dipinto fra le sopracciglia aumentò sicuramente a dismisura, mentre, mordendomi il labbro inferiore, tentavo caparbiamente di attribuire un senso a quelle sue parole per me ermetiche. Eppure quell'espressione mi solleticava tanto la memoria...

«Un insieme di stelle», mi spiegò scrollando le spalle. «Per farla semplice, insomma. L'uomo ha raggruppato questi corpi celesti in ben 88 costellazioni, ossia 88 gruppi di stelle, appunto. Questi simboli paiono richiamare alla costellazione dell'Orsa Maggiore...Sicura di non averla mai vista?», mi chiese nuovamente, indicando la figura che occupava la maggioranza di quella pagina ingiallita con crescente enfasi. Io scossi ancora una volta il capo, demoralizzata.

«Non hai mai osservato le stelle?», mi chiese allora. Feci cenno di no con la testa, intimidita e languida. Il suo volto cereo assunse immediatamente colore, mentre, concitato e trasportato, esclamava: «Rimani qui stasera! Ti porto a vedere le stelle dalla collina di Fiesole! Ci vorrà un po', ma possiamo prendere un treno che ci porti a Firenze in una quarantina di minuti...», mi spiegò, mentre il suo sguardo sfavillava di gioia. Ma, ancora una volta, scossi la testa debolmente. In un attimo vidi scomparire tutto l'eccentrico entusiasmo che poco prima s'era impadronito d'Alberto, lasciando spazio a una flebile malinconia. Il suo volto diafano mi rifilò una breve occhiata di sottecchi da sopra la spalla smilza.

«Ho paura», mormorai perciò incerta, per giustificarmi. Lui mi fissò allibito, per un attimo un candido e sincero stupore gli invase il volto, impedendomi di scorgervi qualsiasi altra emozione. Poi, tutto d'un tratto, scoppiò in una fragorosa risata.

«Paura delle stelle?», mi domandò allora di rimando.

«No, no», risposi. «Ho paura della notte. La notte è buia, pericolosa, non si sa mai chi si trova dietro l'angolo o si aggira nei vicoli bui. Potremmo incontrare ubriachi vagabondi, o, peggio, violenti vandali. Io non viaggio di notte», dichiarai fermamente. In men che non si dica, la risata in cui era irrotto improvvisamente, si trasformò in un mesto e timido sorriso malinconico, persino intenerito.

«Hai ragione, sono stato un irresponsabile», convenne. «Forse siamo ancora troppo giovani per prendere il treno di notte. Però ci sono io, se ti va potresti semplicemente dormire qui e ceniamo in terrazza, magari dopo facciamo una passeggiata in strada. Sai, il viale è illuminato a giorno dai lampioni, è sicuro, c'è il cane da guardia del mio vicino...». Scossi la testa fermamente, decisa. «No, forse posso concederti di cenare in terrazza, ma solo perché non ho mai visto le stelle dal vivo e devi mostrarmi quest'Orsone Mangione», sentenziai inflessibile e austera. Tuttavia, tutta quella mia fiera serietà si frantumò in men che non si dica, quando, sentendo la correzione di Alberto da "Orsone Mangione" in "Orsa Maggiore", irruppi in una fragorosissima e sincera risata. Ridemmo a lungo quel pomeriggio, dimenticandoci dell'arcano celato dietro ai messaggi criptati degli alieni, e il libricino che Alberto aveva portato seco dalla sua libreria si richiuse indifferente, tornando a essere un insignificante e anonimo componente di quella moltitudine infinita di ricordi dimenticati e impolverati. 

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