22) ABOLIZIONE MANICOMI

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La settimana seguente, decidemmo di far ritorno a Colle Val d'Elsa. Il trambusto della capitale ci aveva stordito e necessitavamo della consueta pace di cui c'invadevano unicamente le ampie vallate toscane. Per di più, Alberto doveva studiare da vicino la realtà del manicomio, per poter denunciare qualsiasi sfruttamento, in modo tale da svuotare se non tutte le strutture psichiatriche, perlomeno quella usurpatrice di San Salvi.

«Come farai a fingerti psichiatra anche ora, senza l'aiuto del tuo professore?», gli domandai con apprensione. Un malizioso cipiglio gli occupò il volto stanco, ed estrasse trionfante dalla tasca un documento lievemente sgualcito, identico a quello che mi aveva mostrato mesi prima.

«Non glielo hai più...?», chiesi, esterrefatta, non riuscendo a terminare la frase. Scosse il capo con superbia, altezzoso, replicando: «Se si possiede qualcosa di prezioso, è bene imparare a ricrearlo. Nel mio caso, stamparne una copia è stato sufficiente», spiegò, strizzandomi l'occhio, e mormorando, levando gli occhi al cielo: «Ah, caro professore mio, non m'udire, non m'udire! L'imbroglio che ho commesso è stato finalizzato unicamente al bene, da te tanto proclamato. Non sono un ignobile vile, professore», mormorò enfaticamente, premendosi ripetutamente il pugno sul petto. Quel professore doveva essere davvero speciale, se Alberto gli era così quasi smaniosamente devoto.

I giorni trascorsero velocemente, quasi in un lampo, mentre nelle afose mattinate primaverili Alberto si recava al manicomio che mi aveva inflitto tanto male. Io, invece, ricercavo dappertutto materiale che avrebbe potuto incrementare le nostre ricerche fino a fornirci risposta, rivolgendomi a uomini aristocratici e di legge, sino ad amici di amici di amici. I pomeriggi, invece, riprendevamo ad analizzare i messaggi criptati che avevamo racimolato, con l'aggiunta, quasi quotidianamente, di nuovi. Gli alieni non m'erano mai apparsi tanto frequentemente; mi facevano visita due o tre volte al giorno. Probabilmente, avevano compreso che necessitavamo indispensabilmente di loro. L'intervento tenace e puntuale degli alieni non pareva però allietare Alberto così come faceva con me. Non solo perché i messaggi criptati parevano privi di senso, ma anche e soprattutto per la caparbietà con cui gli alieni me li fornivano. Non sapevo il perché, però osservavo ansiosamente il cipiglio di Alberto farsi sempre più profondo, l'ombra che gli abitava caratteristicamente lo sguardo cupo avanzare sempre più prepotentemente, fino a impadronirsi delle sue labbra corrugate, delle folte sopracciglia perennemente contrite, del naso arcigno, fino a cagionar un perenne e incontrastabile malumore. Che gli fosse successo qualcosa che si stava ostinando a tenermi segreto?

Di sicuro, se lui stesse serbando in quel momento in cuor suo un segreto insostenibile, non era l'unico. Un macigno opprimente mi schiacciava infatti da mesi.

Fin da quando ero fuggita da San Salvi, il dolore non mi aveva più abbandonata. Nella notte, non appena lasciavo cadere le palpebre stanche, doloranti, pregne di sonno, esse subito erano costrette a risollevarsi terrorizzate; lampi accecanti mi si presentavano alla vista, scosse insensibili mi fremevano nel corpo riverso mentre soffocavo le mie grida agonizzanti nella notte silenziosa. I ricordi più bui s'affacciavano; scorgevo nell'ombra temutissima dottori con sorrisi sadici, valigette che mi venivano incontro minacciose, udivo chiaramente il "click" della loro misteriosa e terrificante apertura, dopodiché sopravvenivano nuovamente quelle scosse, l'una dopo l'altra, incrollabilmente. Solo quando sbarravo gli occhi nel buio pesto che avevo attorno, mi accorgevo che quelle, come tutto ciò che in quei momenti mi circondava, non erano altro che ombre, ombre minacciose che mi s'affacciavano nuovamente con spavalda prepotenza, ritorni spaventevoli del mio passato in fiamme. Non riuscivo a liberarmene e, giorno dopo giorno, gli incubi aumentavano. Fin dalla prima notte trascorsa fuori da quelle mura non avevo trovato pace, e ora che Alberto trascorreva tutte le mattine al manicomio e mi richiedeva testimonianze di come venivo precedentemente trattata, per poterne discutere con i folli segregati in quella struttura, la notte era arsa ancora di più di fiamme scottanti, che mi lambivano tutto il corpo, colpendomi con scosse insopportabili. Di conseguenza, il sonno mi veniva costantemente negato, e persino quelle rare volte in cui riuscivo a concedermi a Morfeo, gli incubi sopravvenivano, più concreti e veritieri di quei lampi fulminei nella notte; sognavo lacci che mi stringevano, mi dilaceravano la pelle, lasciandomi sanguinare, manette che mi ancoravano a letti sudici, mentre braccia possenti mi immobilizzavano, e altre, ridendo disgustate, mi tenevano fermo il capo, per posarmi quella macchina da guerra stentoreamente sulla testa. Il meccanismo veniva poi avviato e, puntualmente, mi svegliavo di soprassalto, gli occhi sbarrati, terrorizzata, gocce di sudore torbide che mi scorrevano sul volto paonazzo. Badavo però a non gridare; dormivo con il volto immerso nel guanciale, per evitare che al mio risveglio grida rabbrividenti mi potessero tradire. Alberto aveva già fatto fin troppo per me; non potevo lasciargli gravare addosso persino il peso dei miei incubi. Unicamente la memoria di mia madre poteva scarsamente risollevarmi in quei momenti bui; mi convincevo che lei, teneramente, m'osservava da Lassù, carezzandomi con la mano invisibile, proteggendomi da presenze nefaste. Le mie erano semplici ombre del passato, che protraevano avidamente le mani verso di me, sperando di potermi afferrare, condizionare nel presente, rapire, riportare a quei giorni di cieco terrore, ma invano. Erano ombre che s'aggiravano minacciosamente nella notte, rimembranze del passato, e non avrebbero dovuto spaventarmi. Mia madre m'avrebbe protetto. Peccato che io non potessi più scorgere nel buio la sagoma premurosa di quella amabilissima donna, ma solo quelle scolpite di volti che mi fissavano sinistramente, con intenzioni sadiche dipinte sui volti deformi.

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