Le consuete visite di Alberto avevano in parte placato la mia angoscia febbrile e inquieta, ma ciò non era bastato a frenare anche il dolore del mio corpo, dilacerato, incipientemente moribondo, a causa delle cure mediche che mi erano riservate.
Da qualche tempo, oramai, avevano compreso che segregarci nella laida cantina era per loro stessi, oltre che per la nostra salute, tremendamente rischioso. Di conseguenza, avevano spostato quei letti lerci al piano superiore, stipandoli disordinatamente, addossandoli l'uno all'altro, buttandovici lenzuoli malandati. Avevano cessato di utilizzare persino le catene. Al loro posto, le camicie di forza.
Il loro tentativo di ammanettarmi la mente con l'elettroshock si era espanso al corpo. Quell'indumento mi costringeva, rendendomi il respiro faticoso e pesante, cinghie ferree mi restringevano in corrispondenza del petto, le braccia mi erano state rinchiuse in enormi tasche, e anche a esse era stato impedito il movimento. Non mi era consentito di sollevare neppure un dito. Quando mi issavano dal letto, mentre arrangolavo, ansante, distrutta, per legarmi con quelle cinghie, per soffocarmi, annebbiarmi la vista per quell'impedimento corporeo, per alienarmi i sensi, mi dimenavo implacabilmente, mi rifiutavo nobilmente. Ma invano. Quelle cinghie erano più forti di me, indistruttibili, la condanna che celavano irreversibile. Allora tentavo di scuotere il capo, di impedir loro di montarmi quella diabolica apparecchiatura, ma dopo poco le scosse sopravvenivano forti, ineluttabili.
L'una con più fervore dell'altra, in una smaniosa e folle corsa infinita. Le orecchie mi stridevano, la mente supplicava pietà, percepivo quasi fisicamente il cervello estrapolato dal cranio, soppesato da mani aliene, e ammanettato, stretto da quelle stesse cinghie che mi opprimevano il corpo. Non ero più viva. Ero una marionetta, forse meno. Mi avevano ammanettato la mente, il corpo, persino il cuore, impedendo che qualsiasi emozione potesse sorgervi, stringendolo con crescente smania, coatto in quella prigionia. Non ero più Monica Monti, ma una sua misera ed egra ombra, un riflesso remoto di quella che ero stata un tempo, dagli occhi vivaci, curiosi, gli stessi che ora si cullavano nel piacevole torpore della penosa indifferenza, gli stessi che ora si abbandonavano languidamente al proprio esoso destino.
Tuttavia, le parole di Alberto non mi concedevano requie. «Ti tirerò fuori di qui», mi aveva assicurato. L'avrebbe forse mantenuta quella promessa? O mi avrebbe lasciato spegnere lentamente e inesorabilmente? Avrebbe avuto senso perseguire quelle inaffidabili parole, o forse sarebbe stato più razionale abbandonarmi alla mia condanna, accettare di spegnermi lentamente così come avevo già silenziosamente cominciato a fare, così come tutti attorno a me avevano oramai già fatto, arrendendosi?
Ottenni la risposta che tanto andavo cercando unicamente quando Alberto giunse nuovamente al manicomio, il giorno successivo. Non ebbi neppure il tempo di porgli la domanda tanto ponderata, che subitamente mi accolse: «Stanotte, Monica. Non attenderò oltre». Non riuscii neppure a chiedergli specificazioni, che s'allontanò furtivamente, fischiettando con affettata spensieratezza.
Compresi il messaggio da lui portatomi unicamente quella sera stessa, quando notai immediatamente un'innata serenità negli psichiatri di guardia, che chiacchieravano allegramente fra di loro, non badando a noi. In tre anni e mezzo, non m'era mai capitato prima. Mi accomodai allora sul mio solito e malandato lettino, fermandomi a riflettere. Cos'aveva voluto dirmi Alberto? Era forse prevista per quel giorno la fuga? Ma come avrebbe fatto a farmi uscire di lì, edificio ermetico e ossessivamente controllato? Controllato... M'arrestai. Ma certo! Sfruttando l'assenza di controllo che quella sera casualmente dimostravano gli psichiatri di guardia. Ma come aveva potuto egli prevederla?
«Monica Monti», mi chiamò allora uno dei due che stavo esaminando attentamente. «Devi muoverti, forza!, il medico è appena arrivato», m'intimò brutale.
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Oltre il limite #wattys2022
General Fiction"Quella ero io: Monica Monti. Quella era la mia essenza, il mio essere, e avevo deciso di mostrarlo, piuttosto che recarmi a ritirare la maschera ch'era stata predisposta per il mio volto. M'ero mostrata, quasi imposta alla società, ma essa aveva de...