18) ADDIO

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«Un cancro», mormorai, incredula.

«Un cancro!», ripetei gridando isterica ad Alberto, e colpendo con un pugno quello stesso tavolo su cui quel giorno aveva riposto il sigaro.

«Aveva un cancro e non me l'ha detto... Aveva un cancro e se l'è tenuto per sé! Se fossimo arrivati tre giorni dopo...», sussurrai, il volto rigato da lacrime, il cuore straziato dal dolore. Alberto m'accolse fra le sue braccia.

«Se solo... se solo...», continuai a bisbigliare irrefrenabile, un pianto feroce che oramai mi scoteva forte il petto, che mi faceva irrompere in singulti violenti. Picchiai i pugni sul largo petto di Alberto, gridando e continuando a farneticare, mentre lui, pacato e sicuro, mi rincuorava: «Sh. Sta' tranquilla, Monica... Era una buona donna, t'ha voluto bene, e tu a lei, e non è mancata occasione per dimostrarglielo... Shh, Monica, shh», mi mormorava carezzandomi la testa, mentre una timida lacrima sgorgava persino dai suoi occhi austeri che mai erano stati inumiditi dal dolore.

Quella stessa sera, Alberto mi condusse in un parco, un modesto giardinetto poco lontano dall'appartamento dove aveva abitato la mia povera madre, deserto. Non fui in grado di parlare, un nodo in gola mi frenava la parola. Commossa, riuscii solo a rantolare, scorgendo da lontano l'albero dove aveva voluto che depositassimo le sue ceneri: «Sai, Alberto, lei... Lei mi portava spesso in un parco simile, a Colle Val d'Elsa... Si fermava sempre a contemplare un cipresso, a volte persino per ore... Sosteneva che quell'albero fosse speciale. Non... Non ha mai voluto spiegarmi il perché, forse... forse ci giocava da piccola...», mormorai, la voce intrisa di pianto. Mi era difficile reprimere i singulti che sopravvenivano l'uno con più impeto dell'altro, che minacciavano di scuotermi violentemente, di abbandonarmi al cieco dolore... Ma non potevo. Lei non avrebbe voluto.

«É... è sempre stata tanto legata alla natura, la mia povera mammina. Diceva che è tutto ciò che di buono c'è rimasto a questo mondo, e che l'uomo sta pian piano distruggendo anch'essa, senza rendersene conto, a causa del suo immisurabile egoismo. Lei però ci rimaneva vicina. Come fosse stata un'amica sofferente. Lei si sedeva ai piedi degli alberi, li carezzava, spargeva qualche briciola a terra e poi, silenziosamente, s'allontanava... Per nutrire gli animali impauriti. È sempre stata cara, con tutti. Persino con le piante, coi fiori. Però non so perché abbia voluto scegliere quest'albero per cospargerlo ai piedi delle sue ceneri. Credevo che volesse rimanere eternamente vicina al cipresso toscano...E... e ora non...non posso più chiederglielo...», mormorai, e la voce mi si ruppe. Dovetti tacere. 

«Non possiamo chiederglielo, è vero... Però possiamo ben capirlo. Hai notato che quell'albero è malato? Il più debole fra tutti, proprio com'era lei, senza dimostrarlo. Però è riuscita a esser forte fino alla fine, senza gravare sulle spalle di nessuno... Forse si è sentita vicina a quell'albero, non appena lo ha visto ieri. Ha voluto consolarlo, fargli compagnia, essere il suo sostegno... E chissà, magari riuscirà in parte a rianimarlo. Le ceneri umane potrebbero essere trasformate in concime organico... Ma purtroppo c'è vietato. Chissà che magari Dio non provveda», sospirò.

«Secondo te abbiamo fatto bene a cospargere quell'albero delle sue ceneri? Voglio dire, anche se...», dissi, non riuscendo a concludere la frase. Alberto mi fissò dritto negli occhi, le labbra contratte, il volto severo: «Certo, Monica. Il Comune ci ha autorizzato, e questo è stato il suo volere. Siamo lontani da un centro abitato... Questo parco è piuttosto isolato. Tua madre ha vissuto sempre in funzione degli altri. Glielo dobbiamo».

Rimanemmo seduti su quella panchina scolorita a lungo, in silenzio, osservando le sagome degli alberi nella notte, levando il capo alle stelle. Quella sera scorsi persino la Stella Polare e il Cane Maggiore, ma non dissi nulla. Il dolore mi impediva ogni parola, mi straziava il cuore, come me lo stesse stringendo in pugno, minacciando di far cadere frammenti taglienti da esso, lasciando sgorgare fiumi di sangue, senza però permettermi di lasciar lentamente concludere quella tremenda agonia. Alberto non parlò per tanto, forse per ore. Non saprei calcolare il tempo che rimanemmo a fissare il vuoto, gli occhi vacui, gli sguardi addolorati. Non facemmo nulla. Volevo parlare, sfogarmi, anche solo distrarmi conversando, ma il dolore me lo impediva. A qualsiasi cosa pensassi, l'immagine nitida di mia madre mi perseguitava. Il ricordo di lei felice, mentre mi carezzava la testa, dicendomi di essere speciale. L'ultima volta era stata lei invece a piangere nel mio grembo. Per la prima volta mi s'era mostrata debole. In quelle ultime parole, si era lasciata travolgere dal suo dolore, ed ero stata io a carezzarla. Non le avevo però detto quanto fosse speciale. Quanto le fossi grata per la sua eccessiva apprensione, per l'amore smisurato che ogni giorno mi dimostrava, per l'attesa paziente che aveva avuto nell'aspettativa di rivedermi. Persino con quel cancro. Aveva resistito, nonostante i medici le avessero detto che di lì a poche settimane sarebbe passata a vita migliore. Aveva combattuto per un altro mese, attendendo silenziosamente e ingenuamente un ultimo incontro con me. E io non avevo saputo far altro che tacere. Non ero stata in grado di consolarla. Di starle vicina nel suo agonizzante cordoglio. Non ero riuscita a fare neppure un millesimo di ciò che per me lei faceva ogni singolo giorno. Una lacrima silenziosa mi attraversò il volto. Non volli asciugarmela. Me la lasciai scivolare addosso, fin sotto al mento. Portava seco tutto il mio dolore e, mentre essa cadeva lentamente, con una lentezza frustrante, a terra, mano a mano precipitava verso il terreno anche l'immagine benevola che sempre avevo serbato di mia madre. Avrei tanto voluto riprendere quella lacrima, cacciarmela dentro gli occhi, per illudermi che lei ancora esistesse, ancora fosse felice... Ma non potevo. Invece, la lasciai lì, la fissai a lungo, dopodiché mi levai, aggirandola con circospezione, serbando il più alto rispetto per quella misera lacrima. Poi mi volsi e, senza guardarmi indietro, camminai, dirigendomi verso l'appartamento che prontamente Alberto aveva fittato per entrambi. Non sapevo neppure se lui mi stesse seguendo. Ma sapevo che quella lacrima sarebbe eternamente rimasta lì, a conservare tutto il mio dolore, a testimoniare l'amore che nutrivo per mia madre. "Guardala, mamma. Lì c'è tutto ciò che non ti ho mai detto", pensavo, e intanto desideravo ardentemente che lei udisse quei miei taciti pensieri. Nella notte, rimirai ancora una volta quella panchina, e mi parve d'intravedere un flebile luccichio vicino a quella mia grossa ed emblematica lacrima. Alberto non mi guardava, lo sguardo rivolto a terra, la mano che si toccava febbrilmente gli occhi, al di sotto di quelle lenti spesse che mi impedivano di carpire il suo immenso dolore.

La sera seguente, mi feci riaccompagnare da Alberto in quel parco isolato, su quella stessa panchina scolorita. Non volevo che quel luogo divenisse per me infrequentabile, intriso del mio cieco dolore. Quella lacrima doveva per me conservare ogni cosa. Il luogo in cui ora più potevo comunicare o semplicemente scorgere mia madre era quello, di conseguenza, mi ci sarei diretta ogni qual volta che avessi potuto.

«Sai, Monica, perché ho insistito che venissimo qui unicamente a sera inoltrata, quando non ci fosse più stata la luce del sole?», mi domandò prorompendo dal nulla Alberto, infrangendo il silenzio che s'era creato tra noi. Scossi lievemente il capo.

«Sai, mi hanno sempre paragonato alla notte», riprese. «Mai solare, introverso, sempre riflessivo, perso fra i propri pensieri, una sfumatura melodrammatica che, sostengono, abita costantemente i miei occhi. Io però non me la sono mai presa. Voglio dire, la notte è quel momento dove si è in pochi. Dove molti dormono, altri ascoltano in pace il rumore assordante dei propri pensieri. Di giorno non puoi farlo, o attireresti troppa attenzione, infiniti sguardi schivi e diffidenti. Di notte, invece, puoi perderti fra le tue fantasie, fra inezie o profonde consapevolezze, fra riflessioni ponderate o futili sogni irrealizzabili. Di notte puoi esprimerti. La notte è la mia essenza. Per me è difficile dormire e, allora, mi perdo in me. Mi esploro, senza temere di essere giudicato, perché i più dormono. Talvolta mi reco persino al fiume, deserto, ad assaporare il gorgoglio dell'acqua che aleggia, a rimirare le lucciole. La notte è per quelli come noi. Per gli introversi, i diversi, per chi non è fatto per la società. Già, perché io non sono fatto per starci. Delle volte... mi sento... come capitato per sbaglio in questo mondo, sai, Monica? È una sensazione costante, che ogni tanto emerge maggiormente. E quando emerge, non v'è modo di farci nulla. Mi guardo intorno, fra i miei coetanei, fra i miei familiari, persino fra gli sconosciuti e... e capisco che nulla mi appartiene. Che sono estraneo a tutto, a tutti. Sono estraneo alla mia famiglia, ai miei compagni del corso universitario, a questo mondo intero, sono estraneo a me stesso. E allora la mente ha bisogno d'allontanarsi, di riflettere per sé. Di calibrare il peso di questa vita, di tentare di scovare l'errore nella mia esistenza. Ma, ogni volta, credo che forse sono troppo sensibile io, persino egocentrico. Probabilmente il mio è un bisogno inespresso di attirare attenzioni... Non saprei dirtelo. Però proprio non capisco. Anche da solo riesco a sentirmi estraneo a qualcosa, forse a me stesso, mi comprendi? Come se mi osservassi costantemente dall'esterno. Delle volte, persino mi domando cosa io stia facendo, quasi lo faccia automaticamente, come se la mia vera essenza non fosse lì, ora, nel presente, ma altrove, e avesse per un attimo distolto l'attenzione dal mio futile corpo. Non so, Monica. Non capisco. Questo pensiero mi tormenta da anni, da sempre. Ti ripeto, forse sono castelli che la mia mente ha costruito abilmente... Forse capita a tutti, forse mi hanno inculcato questa errata consapevolezza di essere... brillante, e forse automaticamente ho creduto d'esser diverso. Ma senz'altro mi sbaglierò. Non lo so, Monica, non so più niente. So solo che nulla m'appartiene più. Riesco a sentirmi solo sempre, sempre, non c'è attimo in cui creda di... Sì, d'appartenere a qualcosa. Mi sento solo tra la gente, ma non incompreso... anche, ma quello è un aspetto secondario, sai. Mi sento come se stessi esplorando la Luna per la prima volta, e vi trovassi tanti alieni sconosciuti, e a loro non importasse minimamente di me, di legare con me, persino di parlarmi... Mi sento invisibile, trasparente, ecco come. Come se tutti gli sguardi mi trapassassero, non riuscissero a scorgermi... Mi sento tremendamente diverso. Ma probabilmente è solo un sentimento collettivo, che si sta diffondendo nell'intera società, e io sono stato una pedina prescelta per manifestarlo clamorosamente», concluse, affranto. Si levò, e prese a camminare per il parco, senza meta. Non lo seguii, e rimasi a riflettere sulle sue parole in quella panchina scolorita, assorta, privata della parola. 

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