19) SOLITUDINE

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I giorni seguenti trascorsero lentamente, fra profondi silenzi e occhiate d'intesa, intrisi di quell'amara malinconia che oramai s'era impadronita di noi. Avevamo deciso di rimanere per qualche dì a Roma, se non altro per scampare dagli psichiatri che mi stavano sicuramente ricercando per tutto il paesino toscano. I pomeriggi si susseguivano senza che avvenisse alcunché; puntualmente, alla mattina, mi affacciavo alla finestra che il primo giorno in cui m'ero recata in quello stesso appartamento avevo spalancato di getto e, senza che me ne rendessi conto, persa fra i miei tristi pensieri, il Sole spariva lentamente da dietro Castel Sant'Angelo, segnando la fine di tutti quei nostalgici giorni. Ogni giornata era più monotona dell'altra, Alberto non tentava neppure di propormi attività, intento a rispettare il mio profondo lutto e trascorrendo le giornate, come amava e soleva fare, davanti a libri e fogli, senza proferire neppure una parola.

«Cosa stai facendo da una settimana a questa parte?», gli domandai allora un giorno d'impeto. Lui scosse lievemente il capo, liquidandomi con un gesto labile della mano, minimo, come a dire "Ma nulla, nulla, torna ad affacciarti dalla finestra". A quell'atteggiamento di superiorità mi stizzii e mi ritrovai ad afferrar di getto i fogli che Alberto stava consultando attentamente, prorompendo: «O mi rendi partecipe una volta per tutte di ciò che fai, di ciò che ti passa per quella tua strana mente, o te li brucio, uno a uno», lo minacciai, accennando con il capo al camino prospicente. Interdetto, Alberto sospirò, quasi affranto e, rassettandosi gli occhiali sul naso aristocratico, mi domandò, placidamente: «Ricordi di quando ti parlai del mio... problema? Quando ti spiegai dell'inibizione latente?», chiese. Risposi con un cenno affermativo del capo, sicura di non poter mantenere il tono di voce neutrale che tanto avrei sperato.

«Bene, come avrai capito, questo mio disturbo può somigliare a iperattività. Di conseguenza, necessito di tenermi sempre impegnato, ed è questo il principale motivo per cui so talmente tante cose da sorprendere, decisamente più di quanto ci s'aspetterebbe da un mio coetaneo. Stavo giusto... approfondendo determinati ambiti», mi spiegò evasivamente.

«Quali?», domandai allora di rimando, il mio umore acerbo e altalenante di quel giorno che traspariva eclatante dalla mia voce sdegnosa.

«Inibizione latente... sto cercando di... approfondirlo. Di vedere, a esempio, negli... schizofrenici, sì, come si manifesta, se magari possono esserci analogie o discrepanze con il mio caso... Sto tentando di... indagare anche sui cervelli di... di coloro che...», balbettò. Non lo lasciai finire, gridando isterica: «Vuoi dire che mi stai studiando? Sei diventato mio amico solamente per capire come funziona questo mio stupido cervello?». Le mani protese come a proteggersi, clemente, il volto inorridito, si levò in piedi, avanzando verso di me... Ma io mi sottrassi al contatto fisico e visivo che tentava di stabilire con me, allontanandomi.

«Monica, ma cosa dici? È solo che...», tentò di giustificarsi. Non volli udire più nulla, e uscii di getto, lasciandomi sbattere fragorosamente la porta alle spalle.

Sull'uscio, mi aspettava lei. Non riuscii a muovere un passo. Non era affatto come la ricordavo. Le iridi rosse lanciavano fiamme, mi fulminavano con uno sguardo struggente, i capelli lerci, incurati, raccolti in una crocchia fatiscente... Lei, che era sempre così accorta... Credetti che la vista mi stesse ingannando. Chiusi e risollevai le palpebre, ma un velo di triste speranza m'impedì d'accertarmi che i suoi abiti fossero laidi come li avevo per un attimo scorti, persino disabbinati, un odore sgradevole, quasi nauseante, che aleggiava nell'uscio... Possibile che fosse proprio lei? Quanto doveva essere cambiata! Ma poi compresi. Dietro di lei, i volti terrei, familiari, gli occhi vacui e spiritati, i sogghigni malefici, gli sguardi sadici... Di loro. Delle spie russe. Una di loro indossava un passamontagna, per non farsi riconoscere, e teneva stretta mia madre, una pistola puntatale alla testa. La donna dinnanzi a me però non se ne curava, mi fissava indifferente, quasi appagata, serena, come lieta che quell'indicibile agonia potesse aver modo di cessare. Intanto, le altre spie continuavano a sogghignare sinistramente, i capelli unti che incorniciavano loro i volti cerei, scarni, le vene in rilievo sulla fronte solcata da profonde rughe. Mi slanciai verso mia madre per afferrarla, sottrarla a quelle torture... Ma non feci in tempo. Ella riuscì giusto a mormorarmi: «Ricorda che ti voglio bene, Monica, e sempre te ne vorrò», prima che un suono assordante, secco, deciso, rimbalzasse per le pareti di quello stretto edificio.

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