La macchina che mi stava trasportando senz'ombra di dubbio verso uno dei gironi descritti dall'Inferno dantesco si dissolse nel nulla in men che non si dica, e io mi ritrovai a fluttuare beatamente tra le nubi cinerine.
Attorno a me, un cielo purpureo rigurgitava vortici di tempesta violenta, mentre rivoli di sangue sgorgavano liberamente da quelle stesse nuvole che scagliavano crudeli lampi sul terreno riarso.
I fiumi di sangue vermiglio che cadevano rovinosamente ai miei piedi mi lasciarono indifferente, almeno fino al momento in cui mi resi conto che quel liquido scarlatto era frutto di occhi umani.
Umani, in verità non saprei dire. Quelle che scorsi sopra le nubi erano iridi inespressive, sguardi vitrei, disanimati, quasi spiritati, talmente indifferenti a ciò che stava accadendo loro intorno da non rendersi conto di star piangendo lacrime di sangue. Una tale indifferente passività non poteva appartenere a degli umani. Le mie congetture furono raffermate dallo spiegarsi di un paio d'ali scolorite, che fendevano l'aria con esasperante lentezza, dietro quegli occhi piangenti. Quegli angeli piangevano lacrime di sangue, insofferenti, mentre tutto in loro si spegneva lentamente, tormentatamente, come quelle ali prossime a morire. Ma cosa potevo fare io, al loro cospetto?
«L'indifferenza, l'ignavia, è il peggior peccato che si possa commettere, Monica», mi riprese una voce potente e fiera, che fece tremare intimidite persino le nubi ribelli.
«Padre, ma cosa posso fare io, misera contadina e ignobile malata?», domandai allora, la voce intrisa da una vena di pietoso tormento interiore. La voce che avevo udito divenne materia, inondandomi di terrorizzante infinità, accecandomi di casta luce pura.
«Monica, qualcosa puoi fare. Gli angeli piangono lacrime di sangue, e gli umani le trasformano in fiumi d'ebrezza spassosa, in valanghe di vino inebriante. Avvertili, Monica, o, al giorno del Giudizio, perirete sotto la meschina sorte scelta da Satana!», mi ammonì tonante, dopodiché scomparve.
«Dobbiamo impedire il pianto degli angeli, o verremo portati all'Inferno!», gridai angosciata, divincolandomi nel sedile posteriore dell'auto. Nessuno parve degnarmi della minima attenzione.
«Dobbiamo consolare le anime celesti!», ripetei, con febbrile e quasi puerile ostinazione. Qualcuno mi assestò un poderoso calcio sugli stinchi. Il dolore per un istante mi stordì. Tacqui, ammonendoli un'ultima volta: «Il giorno del Giudizio perirete sotto le volontà di Satana, poiché, miseri e vili umani!, avete ignorato il pianto degli angeli. Che Dio mi risparmi», rantolai, chiudendo lentamente gli occhi, oppressa dal macigno della Divina Indifferenza.
Qualche ora dopo, giungemmo a destinazione. Gli psichiatri avevano tentato di estrapolarmi qualche dato personale per approfondire la nostra conoscenza e ampliare la mia cartella clinica, ma con scarsi risultati. Mi ero ostinata a non parlare, a non voler riconfermare neppure la mia identità, il mio nome, la mia provenienza, a quegli individui che mi avevano catturato. A quelle bestie che non potevo identificare neppure come uomini. A coloro che mi avrebbero per sempre rovinato la vita. Avrei combattuto, prima di ogni altra cosa. L'avrei fatto per me, per dimostrare a tutti che potevo condurre una vita normale, che non bastavano torture indicibili per sopprimere la mia condizione, per guarirmi, per mettermi a tacere. Avrebbero unicamente alimentato la fiamma che da tempo era attecchita nel mio animo, che sfrigolava pericolosamente, avrebbero fatto sì che quell'incendio interno divampasse, che quelle fiamme lambissero loro stessi, bruciandoli, uccidendoli. Avrei combattuto per me, per mia mamma, per Alberto. Per quelle poche persone che avevano creduto in me. Che ritenevano la mia una dote. Che non mi avevano emarginata. Che mi avevano voluto bene incondizionatamente. Coloro con cui mi ero sentita a casa, con cui lo sarei stata sempre.
Lasciando vagare lo sguardo, mi accorsi che le colline che mi circondavano non mi erano affatto familiari. Qualche villa appariscente abitava quei dolci colli, bimbi schiamazzanti gremivano le strade, altri erano sulle sponde di un corso d'acqua. Un fiume ampio, limpido, abitato da qualche candido cigno o regali anatre, che rifletteva chiaramente i volti dei bimbi che vi ci specchiavano divertiti e affascinati allo stesso tempo. Alberto mi aveva raccontato di un fiume, un bel fiume, cristallino, dall'acqua fresca, frequentato costantemente da piccoli e docili bimbi schiamazzanti...
STAI LEGGENDO
Oltre il limite #wattys2022
General Fiction"Quella ero io: Monica Monti. Quella era la mia essenza, il mio essere, e avevo deciso di mostrarlo, piuttosto che recarmi a ritirare la maschera ch'era stata predisposta per il mio volto. M'ero mostrata, quasi imposta alla società, ma essa aveva de...