21) RICONGIUNGIMENTO

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Nei giorni seguenti, riflettei a lungo sulle parole illuminanti del vecchio. Mi avevano colpito come un flagello, nel profondo. Dovevo essere felice, mi ripetevo. Era l'unica richiesta che mia madre mi avesse rivolto implicitamente, al suo capezzale, prima che il suo corpo mi abbandonasse per sempre. Ma come potevo far avverare quella sua volontà, nei continui impedimenti che la vita mi aveva imposto, nelle mie penose condizioni? Di cosa dovevo essere felice? Avevo perduto tutto. L'appoggio materno, quello fraterno di Alberto, e persino il vecchio in cui avevo sperato ingenuamente per qualche ignobile attimo. Se n'era andato presto anche lui, come una visione, come un'evocazione del mio inconscio. Eppure non era così, ne ero sicura. L'avevo visto chiaramente allontanarsi zoppicante, per poi volgersi, e ammonirmi: «Fa' di tutto per raggiungere la felicità. Puoi, possiamo, è un dono che ci è stato conferito dalla nascita. Può ora sembrarti difficile, è vero, ma non v'è ostacolo che sia realmente insormontabile. Le persone s'allontanano, ma non spariscono mai del tutto e per sempre. Vai a riprenderti ciò che più desideri, e insegui questa stramaledetta felicità». Mi aveva rivolto quel pensiero aforismatico, per poi volgermi le spalle, lasciandomi nuovamente sola, nella piena e intensa contemplazione dei miei pensieri, della mia vita, di me stessa, di quello che era ed era stata Monica Monti. Sentivo però che quell'uomo non m'aveva davvero del tutto abbandonata. Non era forse stato il suo un intervento per ricondurmi alla retta via? Forse Dio me l'aveva posto sul cammino per convincermi ad accettare supposizioni che mai avrei anche lontanamente ammesso di concepire... Dovevo forse dunque far ritorno da Alberto? Ma dopo un mese di assoluto nulla, una scomparsa inconfutabile, sarebbe forse tornato tutto come prima? D'altro canto, però, potevo veramente esser felice senza la persona a cui più tenevo al mondo? Se non a me, lo dovevo a mia madre. Un tentativo, dovevo pur concedermi un unico e misero tentativo. Dovevo inseguirla, quella felicità che era tangibile, afferrabile, a pochi passi da me. Sporgermi non bastava. Sarei caduta rovinosamente a terra, e qualcuno alla fine me l'avrebbe sottratta, quella felicità a pochi centimetri, perché il mondo e il tempo non attendono, mai. Però, qualche passo potevo muoverlo verso quel barlume di speranza. Potevo, e l'avrei fatto. Tutto pur di riprendermi quello che m'aspettava, avrei percorso quei pochi centimetri che mi separavano dalla felicità persino di corsa.

Decisi di muovere il primo passo di quella mia folle corsa esattamente l'istante dopo che quest'ultimo pensiero m'ebbe attraversato la mente. Non dovevo affatto esitare, o il moto di speranza che mi aveva pervaso sarebbe presto cessato, lasciando ricadere il sipario che m'annebbiava la vista e ponendomi dinnanzi alla cruda e triste realtà. Non volevo che accadesse. Decisi perciò di lasciarmi invadere da quell'esaltazione, e lasciarmi muovere esclusivamente da essa; solamente con il suo aiuto, la sua generosa spinta, avrei potuto far qualcosa che potesse cambiare il destino ormai segnato dell'amicizia fra me e Alberto, che avrebbe potuto trasformar quel "fine" inciso nell'ultima pagina di quel libro che narrava di noi, dei nostri silenzi, di quelli ch'eravamo stati, in un "continua...", provocando nel lettore l'ardente desiderio di scoprire cosa ne sarebbe stato di quella pazza e quel, a modo suo, anch'egli folle genio.

Quasi in uno stato di trance, alienata dai miei pensieri, mi ritrovai improvvisamente dirimpetto l'edificio che avevamo fittato io e Alberto per il nostro soggiorno a Roma. Fissai il citofono, esitando. E se Alberto non fosse stato più là? Magari aveva fatto ritorno a Colle Val d'Elsa, una volta compreso, errando, che non sarei mai più tornata da lui... Sospirai, tentando invano di controllare l'agitazione, il petto che mi rimbombava di battiti sordi e irregolari. Se mi avesse voluto cancellare definitivamente dalla sua esistenza? Supplicarlo sarebbe forse servito a qualcosa? Non lo sapevo, non sapevo più nulla. Non volli fermarmi oltre a ponderare quella decisione presa d'impulso. Senza concedermi più la minima esitazione, posi il dito sul citofono, suonando, e il campanello trillò.

«Chi è?», gracchiò una voce stanca, addolorata, eppur contraddistinta da quella nota di alterigia che costantemente sfumava nella sua voce imperiosa. Non riuscii a parlare, un nodo in gola mi frenò tutte le disperate scuse che avrei voluto rivolgergli, impedendomi persino di pronunciare il mio nome, quello d'un'ignava, una vile inetta. Perciò, tacqui. Alberto avrebbe potuto credere che si trattasse di ogni cosa immaginabile: bimbi che scappavano fieri d'aver raggiunto il compimento della loro celia, sparpagliandosi disordinatamente per gli stretti viottoli nascosti di Roma, vecchi cari che gli facevano visita, controlli eccezionali da parte dei servizi sociali, il corriere, qualcuno che, errando, s'era imbattuto in lui, sperando di poter trovare il reale proprietario di quell'appartamento... Poteva essere chiunque, persino un vagabondo, eppure lui comprese. Seppi che aveva capito dalla sua tacita risposta, dal suono dell'apertura di quel portone, senza l'aggiunta di alcuna parola. Alberto mi aveva ancora una volta spalancato le porte per accedere, ma che dico, per completare la sua vita, per proseguire assieme quel cammino tortuoso.

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