26) È STATO UN LUNGO VIAGGIO

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Mi trovavo al cimitero, timide lacrime invadenti che mi solcavano il volto addolorato. Il pianto disperato che conservavo in petto m'impediva di accertarmi dell'identità di colei che era stata seppellita lì, a pochi passi da me. La ragione, tuttavia, quella perfida spietata che tentavo di sopprimere violentemente, mi suggeriva chiaramente il nome inciso su quella lapide di marmo, nel bel mezzo di miserabilissimi uomini deceduti, quando si sarebbe dovuta innalzare fiera in un campo fiorito, unica luce in quelle campagne fulgenti. Invece, il buio l'accoglieva ora, l'abbracciava, un'atmosfera tetra avvolgeva il suo cadavere, il suo animo lieto e raffinato, adunandolo assieme a quello ignobile e indegno di molti altri che erano stati collocati di fianco a lei. Mi asciugai lo spesso velo di lacrime che m'ostacolava la vista, e non ebbi più alcuna incertezza: il nome scolpito a pochi centimetri da me era proprio il suo; era il nome di colei che era stata per me cagione della più sincera e spensierata felicità, di colei che m'aveva persino insegnato, a me, miserabilissimo uomo ingannato dalle convenzioni affaristiche e pragmatiche della società, il vero significato della felicità, di quella rara e prodigiosa gaiezza imprevedibile, come a un povero bimbo inesperto. A pochi centimetri da me, inciso il nome di colei che era stata però anche la causa dei miei più insostenibili cordogli, dei miei dolori più strazianti, delle agonie più fustiganti, del tormento che m'assaliva in quel momento. A pochi passi da me, la lapide in memoria di lei, di Monica Monti, perita sotto il colpo infallibile della società che l'aveva a lungo condannata, e da cui lei era rifuggita insanabilmente, tenace. Tuttavia, il suo gracile corpo non era stato in grado di sopportare i colpi, le pugnalate indegne, che le erano state ripetutamente inflitte alle spalle. Ti ho voluto bene, Monica, infinitamente.

Mi allontanai sconfitto, il capo chino, la schiena arcuata, come non riuscisse a sostenere il peso di tutto ciò che m'era ingiustamente capitato. Affranto, sconfitto, una rabbia calda e agguerrita, assetata di vendetta, di sangue umano, che mi ribolliva dentro. Mi sedetti su di una panchina poco distante, il capo tra le mani, disperato, mentre singulti irrefrenabili mi scotevano il corpo disfatto, vinto, che ora m'appariva unicamente un ostacolo. Cosa me ne sarei fatto di quel corpo, se era l'unico impedimento che mi imponeva l'impossibilità di raggiungere Monica, laddove si trovava ora? Picchiai i pugni sulla panchina fino a farmi male, fino a lasciarmi sanguinare le nocchie, a cospargermi disperato il volto di quel mio stesso sangue. Gridai, nel silenzio della notte. Nessuno m'udì, se non qualche uccello spaventato, che s'allontanò dalla fronda accogliente d'un albero. Era morta. Monica era morta. Quell'unica consapevolezza non mi concedeva requie, mi accecava, mi alienava i sensi, mi inaspriva di bile la bocca, mi comprometteva la ragione, fino a comportarmi fitti spasimi incontenibili, grida irrefrenabili, pianti disperati, fino a portarmi a colpire ferocemente il muro, senza fermarmi dinnanzi al dolore, anzi continuando, ricercando quello strazio fisico, quasi potesse esprimere il turbamento profondo che provavo, a cui nulla pareva rendere la dovuta giustizia. Affondai le mani nei capelli, in quei riccioli che Monica amava tanto, e mi racchiusi in me stesso. Non pensai, mi alienai da tutto per qualche ingenuo attimo, sentendomi come amaramente sospeso nel vuoto, come fossero stati recisi tutti i fili che mi legavano alla vita, ma, al contempo, anche le ali che promettevano di lasciarmi spiccare il volo. Ero sospeso fra la prigionia e la libertà, in una condizione opprimente indescrivibile. L'immagine di Monica mi tormentava, mi accompagnava giorno e notte, ogni minuto avevo il folle pensiero di andare a trovarla, di domandarle il motivo del suo assurdo comportamento in tribunale, ma poi puntualmente mi ricordavo che lei non c'era e, allora, per qualche attimo, riflettevo su dove poter trovare la carta per spedirle una lettera, e poi rammentavo dolorosamente che, dove era giunta, neppure il più abile e coraggioso postino avrebbe potuto far recapitare quelle mie vane parole... E allora quel tormento tornava ad assalirmi. Picchiai i pugni sulla panchina ancora una volta, per poi portare le mani fra i capelli, disperato, percependo chiaramente il sangue rappreso che v'era incastonato. Le sue risate contagiose mi rimbombavano nella testa, i suoi sorrisi genuini persino durante le passeggiate nel giardino triste del manicomio, inaccordabili con lo scenario amaro che la circondava, eppure costantemente presenti, invincibili... Sentivo quasi scorrermi addosso, sulla camicia di lino, le sue timide lacrime, che quasi osavano chiedermi il permesso di bagnarmi quel misero tessuto, nei momenti di sconforto. Ma, inaspettatamente, mi rendevo conto che le lacrime che in quegli attimi impregnavano i miei abiti erano le mie, quelle cagionate dal fantasma, dallo spettro della mia più cara amica.

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