20) AMAREZZA

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Mi avevano abbandonato tutti. Dapprima, l'umanità, vile egoistica comunità, poi la ragione, mia madre, e infine Alberto. Tentavo notte e giorno di scacciare quegli obbrobriosi pensieri, quelle amare e sconsolate consapevolezze, impiegavo le mie energie nel vano tentativo di disprezzare tutti coloro che volontariamente mi avevano abbandonata, lasciandomi preda della mia avversa sorte. Tuttavia mi era impossibile. Vituperare me era molto più semplice. In fondo, quali colpe poteva detenere la società? Il suo era unicamente un caparbio  intento di controllare la popolazione, ma probabilmente non per manipolazione come avevamo da sempre sospettato, no, ma per garantire una totale sicurezza. Non ero io forse un pericolo? Potevo forse essere arginata, controllata? Per strada, le mie occhiate irrequiete non lasciavano invece sciamare via come mosche tutti i poveri bimbi che mi circondavano? Di conseguenza, era impossibile persino starmi vicino. Sarà stato senz'altro per quel motivo che Alberto mi aveva abbandonata. Però, esaminarmi sin dall'inizio, con il solo intento di studiarmi, aver progettato e premeditato minuziosamente la nostra futura amicizia... Non potevo tuttavia biasimarlo per il suo deplorevole comportamento. Necessitavo di controlli, ed essi possono essere applicati unicamente con una buon dose di conoscenza. Senza, l'uomo è nulla, una bestia inferocita che tenta di ribellarsi ai propri predatori, disperata, non poi così diversa da un'innocua lepre, o un tenero cerbiatto.

Ero dunque sola.

Cominciai perciò a tenermi compagnia con un diario segreto, dove riportavo quotidianamente il mio malessere interiore, la persecuzione delle spie russe e degli alieni, i continui messaggi criptati che seguitavano a sopraggiungermi, persino le accoglienti parole divine che mi venivano rivolte dall'Onnipotente. Mentre scrivevo, mi sentivo quasi libera, svuotata dei miei problemi, come avessi davvero un compagno, un amico a cui narrare qualcosa. Non era certamente lo stesso, ma per una come me, abituata ed educata a venerare l'arte del discreto silenzio, non pativo certo troppo l'assenza di una voce reale. Sentivo che qualcuno mi stava ascoltando, seppure a me occulto, e magari annuiva languidamente proprio così come soleva fare Alberto, oppure si rassettava persino un paio di lenti spesse sul naso diritto. Mentre riempivo pagine e pagine di quel mio diario, mi rendevo conto di quanto la scrittura fosse impagabilmente gratificante ma al contempo vergognosamente vile. Era certo una modalità di sfogo, di liberazione articolata, appagante; soddisfaceva appieno l'aspettativa di rinascere, rigenerarsi, da quella continua e ossessiva narrazione, non interponendo l'intervento di altri se non una miserabilissima penna e un povero foglio di carta scadente. Rifuggivo tuttavia così dai miei problemi. Non ero in grado di affrontarli, perché quel momentaneo piacere estremo, che guizzava, palpitava di cheta serenità, mi era sufficiente, lasciava scorrere lentamente via il dolore che mi affliggeva, come spegnesse l'incendio che si dilagava allora in me. Come una droga, per me era la scrittura. Compresi solamente in quei pomeriggi di smania incontrollabile i motivi di tanta assiduità di scrittori che avevo ritenuto folli nella stesura di libri: narrare storie di altri, dolorose, quasi insopportabili, era un modo per placare la propria ira, il proprio cordoglio interiore. Era certo più facile lasciar soffrire personaggi immaginari che non se stessi, che non raccontare in quelle pagine alla portata di tutti il proprio dolore, tormento, la propria vita. Meglio lasciarla vivere ad altri, con stupefacenti affinità di pensiero con l'autore. La scrittura era vile, ecco tutto. Ma ero mai io forse non stata una vile, un'insulsa e inetta codarda? Mai. Da sempre, le inerzie della vita mi avevano costretto a quella penosa vigliaccheria.

I giorni seguenti, fui costretta a dormire sulla riva del lago che amavo rimirare per riflettere, sotto gli sguardi inquisitori delle anatre interdette. Era oramai vicina la primavera di quell'irrisorio 1967, che aveva portato con sé i dolori più profondi, i sentimenti più acerbi, gli strazi peggiori della mia vita. Pareva tuttavia volermi coccolare con quel fresco venticello che sopraggiungeva la sera, raramente punendomi con insopportabili venti implacabili che s'insinuavano fra le fila di coperte sotto le quali ero sepolta. Mi trovavo bene, al cospetto della natura. Come se mi ci fossi fusa, l'unica mia alleata in quel mondo crudele. Di conseguenza, trascorrevo le mie intere giornate in riva al lago, lanciando sassi sullo specchio d'acqua con l'unico intento di scalfire quella fastidiosa perfezione, oppure conversando animatamente con gli animali che mi circondavano. Sguardi diffidenti mi venivano rifilati ogni giorno, dal vialetto che costeggiava la riva, bimbi crudeli mi deridevano, ma oramai v'ero abituata. Quella ero io: Monica Monti. Quella era la mia essenza, il mio essere, e avevo deciso di mostrarlo, piuttosto che recarmi a ritirare la maschera ch'era stata predisposta per il mio volto. M'ero mostrata, quasi imposta alla società, ma essa aveva deciso che non andavo bene. Per i miei usi, costumi, per i miei modi, il mio carattere, il mio aspetto trascurato, la mia povertà, le mie problematiche, la mia mente. Quella ero io; io ero Monica Monti, inaccordabile con l'austerità dalla quale ero circondata. Quella ero io, ed ero profondamente e radicalmente sbagliata.

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