Non riuscii a udire la risposta rantolata da Alberto, poiché l'uomo chiuse fragorosamente la porta alle mie spalle prima che qualsiasi altro suono potesse giungere a me.
«E così, siete venuti a riprendermi, eh?», lo canzonai sfacciatamente. «Dimmi un po', vi ha chiamato qualcuno, avvertendovi che sarei stata qui oggi, o avete sprecato il vostro prezioso tempo per una matta, per tentare di riacciuffarla come si fa con i criminali?», seguitai a farmi beffe di lui. L'uomo dinnanzi a me non replicò, ma un suono secco, deciso, prevenne il dolore scottante che provai un attimo dopo. Incredula e terrorizzata, mi accarezzai la guancia arrossata dal colpo. I miei occhi da cerbiatto si guardarono attorno, spauriti. Nessuno pareva volermi soccorrere, tentare di indagare su quella violenza appena subita. Avevano tutti gli sguardi rivolti a terra, o su dei fogli di carta. No, l'uomo che mi aveva colpito non si era guardato prima attorno, e non era stata la fortuna del caso. Erano complici. Erano tutti complici, alleati della stessa società che li stava inesorabilmente sopprimendo, soffocando fino a privarli di ogni energia. Lo riconoscevo dai loro sguardi; occhiate febbrili precedevano finte mosse disinteressate, una profonda inquietudine testimoniata da gesti nervosi accompagnava frasi quotidiane, osservazioni serene e consuete. Un unico uomo mi scrutava sospettoso. Era a pochi passi da me, osava incenerire con occhiate d'ammonimento colui che ora mi stringeva convulsamente il braccio. Tuttavia, non appena quell'uomo coraggioso incrociò lo sguardo di chi avevo a fianco, abbassò intimidito il capo. S'arrischiò un'ultima volta a lanciarmi un'occhiata, non più intrisa però dell'ardore agguerrito e assetato di giustizia di poco prima. Era un'occhiate languida, malinconica, lo sguardo tormentato divenuto torbido, illeggibile. Mi sorrise mestamente, compatendomi, poi, esattamente come gli altri, chinò il capo su delle scartoffie. L'uomo di fianco a me mi sospinse oltre l'ultimo grande portone, fino a spintonarmi in macchina. Occupò il posto del guidatore, sospingendomi prepotentemente nel sedile posteriore. Non tentai neppure di ribellarmi; prima o poi, sapevo che sarebbe accaduto. Ero solo contenta che mia madre non avesse dovuto patire anche questo.
«In quale manicomio?», chiesi placidamente, dopo pochi minuti d'insopportabile silenzio.
«Ancora osi parlare, matta?», replicò duramente l'altro, inflessibile. Tacqui per qualche minuto, dopodiché ripetei, ostinata: «Allora? Torno a San Salvi?». Dallo specchietto retrovisore, scorsi una chiara occhiata ammonitrice, fulminante. Non mossi un muscolo, sostenendo quello sguardo gelido.
«Ti conviene smettere di parlare. Ogni parola è un minuto d'agonia in più», m'intimò l'uomo sprezzante, sbuffando sonoramente dal naso. Senza bisogno d'altro, capii che sarei stata riportata a San Salvi, e non ne sarei più uscita.
Gli schizzi del mio stesso sangue mi macchiavano il volto esangue. L'unico rossore che compariva sulle mie gote ceree era quello provocato dal liquido scarlatto di cui era tinto il mio viso. Gridai. Gridai forte, fino a liberare l'aria dai polmoni, fino a sperare che persino Alberto, persino mia madre dall'aldilà mi avesse udito. Un altro colpo. Un'altra frustata, e un'altra ancora. La mia schiena nuda era cosparsa di graffi profondi, sanguinanti. Ero legata per mani e piedi a una sedia; una sedia in legno, scomoda, con qualche scheggia affilata che mi penetrava nelle gambe. Mi accasciai, lasciando ciondolare il capo sulla spalla, tentando invano di concedermi del riposo. Non vi riuscii. Altri colpi me lo impedirono; colpi lancinanti, come fiamme che si diramavano implacabili nel mio corpo, espandendosi lentamente, a lungo. Fui costretta a rizzarmi, in preda a fitti spasimi incontrollabili. Gridai, ma invano. La gola era secca, da ore oramai mi stavano percuotendo duramente. Quando avevo osato chiedere un po' d'acqua, i colpi avevano raddoppiato la propria frequenza. Mi frustravano da ore, e non ne conoscevo neppure il motivo. Forse semplicemente perché non andavo loro bene; ero un pericolo, con il mio dono, ero fuggita, li avrei smascherati, anzi, li avevo smascherati. Mi rammaricavo unicamente di non aver elencato anche le frustate, in tribunale, fra i soprusi e le violenze subite. Chiusi gli occhi. Il dolore era talmente grande, lo strazio così profondo, che non ebbi più la forza neppure di rizzarmi, di controllare quegli spasimi. Mi feci percuotere senza più ribellioni, sudando, l'unico liquido rinfrescante che mi fosse concesso erano quei miei stessi rivoli di sangue che mi scorrevano addosso. Accasciai il volto sulla spalla. Non mi mossi, inerme, indifferente a quel dolore insopportabile che man mano andava scemando. Lo sentivo lontano, sempre più lontano, come una vista sfocata, un suono ovattato, come un ricordo recondito, quasi dimenticato... Come erano mia madre e Alberto. Forse, dopotutto, nonostante l'inganno, Alberto mi voleva bene. O non mi avrebbe mai liberato; avrebbe potuto benissimo lasciarmi marcire in quel laido manicomio, riuscendo tuttavia a studiarmi grazie alla vicinanza da lui stesso creata. Che l'avesse allora forse fatto per pena? Non lo sapevo. Non sapevo più nulla, se non che quel dolore mano a mano diveniva sempre più sopportabile, quasi delicato, discreto... Ma no, ma no, dovevo resistere. E per chi? Per Alberto? Non m'aveva forse ingannato, tradito, studiato sin dal principio? Però era nella sua indole; era uno studioso, lui. Non come me, una misera contadinella. E poi, l'aveva fatto a fin di bene, per giustizia; voleva veramente liberare le strutture psichiatriche. Non l'avevo poi forse ingannato anch'io, vile, in tribunale? Però solo in seguito alla sua, di frode... Non lo sapevo. Non riuscivo a capacitarmi di tutto ciò. Possibile che fossi stata sempre e solo un'esca, un mezzo per giungere al suo obiettivo, quello che s'era perciò premeditato da anni? Ero stata solo questo per lui, quando lui era stato tutto per me, la mia intera vita? Quando la mia esistenza s'era plasmata seguendo la forma della sua? Forse no, dopotutto, pensai con un mesto sorriso, mentre udivo ovattate persino le imprecazioni dell'uomo che mi frustava, mentre sentivo chiaramente quel fastidio effimero abbandonarmi lentamente il corpo. Forse no, non ero stata solo un mezzo. Ma il genere umano era capace di tutto; non potevo illudermi. Ero stata uno strumento, nulla più. Uno strumento così come lo ero ora per quell'uomo; un oggetto miserabile su cui sfogare la propria incontenibile ira.
Quasi senza che me ne accorgessi, vicina alla perdita dei sensi, l'uomo mi slegò, veementemente, costringendomi a rizzarmi in piedi, su due gracili gambe talmente deboli da non riuscir più a sostener il mio peso. Mi accasciai a terra, cadendo sulle ginocchia. Altre frustate, altri schizzi che mi inondarono il volto, per esortarmi a rialzarmi. Fu tutto inutile. Solo dopo quelle che mi parvero interminabili ore, l'uomo se ne rese conto. Sprezzante, mi sputò addosso, cospargendomi di disonore, oltre che di incessabili colpi. Privandomi persino della mia dignità, non solo della mia pelle. Non s'era però accorto che s'era anche lui privato di qualcosa: della sua umanità.
Mi portarono ferocemente da un'altra parte, in un'altra camera, sdraiata su di un letto sudicio. Legata, come consuetudine. Mi immobilizzarono il capo due uomini dalle mani gelide, potenti, furiose. Mi tennero ferma a lungo, prima che il familiare apparecchio mi s'accostasse alle tempie, oramai tumefatte. Imponendomi d'aprire forzatamente gli occhi, riuscii a sollevare quel tanto le palpebre da scorgere, a pochi centimetri da me, la valigetta infernale. Quella descritta unicamente poche ore prima in tribunale; in acciaio, dura, impenetrabile, proprio come l'animo di chi la portava seco. Richiusi gli occhi, impotente. Non eros paventata, no. Oramai conoscevo la procedura, sapevo esattamente cosa avrei provato. Dapprima non avrei sentito nulla, per il trauma della potenza dell'elettricità, poi un dolore lancinante, che sarebbe rimbalzato per tutte le pareti interne del mio organismo, finché non l'avessi percepito fin nello stomaco, finché non avessi sentito fremere persino la punta delle piante dei piedi, finché non mi si fossero rizzati in capo i capelli bruni. Prima che avviassero il macchinario, la mia vita mi scorse davanti come in una scena di un film. Rividi mia madre carezzarmi affabilmente il capo, premurosa, quando avevo tre e tredici anni, allo stesso modo dolce e tenero come solo una madre può fare. La rividi chiedermi ogni pomeriggio, dopo la scuola, apprensiva, come fosse andata. La rividi preoccupata, piena di collera, per la prima volta che mi presentai a casa ricoperta da bucce di pomodori, nelle orecchie ancora rimbombante l'inno più celebre fra i giovani della mia età: "Monica la matta va in casa a far lapazza! Scappate da quella là, o vi ucciderà!". Infine, dinnanzi agli occhi mi comparve lei, serena, alla vista di una me altrettanto allegra, di ritorno dalle serate trascorse con Alberto, e poi, subito dopo, in bianco e nero, lei triste, distrutta dal dolore da me inflittole gratuitamente. Infine, mi apparve quel nostro ultimo incontro, ella che piangeva sommessamente sul mio grembo, tentando invano di dissimulare quei suoi tonanti singulti. Dopodiché, fu la volta d'Alberto. Inevitabilmente, mi scorsero dinnanzi agli occhi tutti inostri preziosi momenti; quelli felici, in cui quasi mi pareva di udire ancorale nostre lontane risate spensierate, e quelli tristi, in cui m'aveva consolato, abbracciato, io che piangevo tra le sue braccia. Mi venne poi in mente lui come solo una volta l'avevo visto: un Alberto iracondo, al conoscere il mio passato, le celie a cui ero stata soggetta, gli scherni ignobili, e un Alberto triste, abbattuto, quando mia madre era venuta a mancare. Che figlia deplorevole che ero stata; non mi ero mai recata alla lapide innalzata in sua memoria al cimitero. Però, ero stata a pochi passi dalle sue ceneri, in quel parco, quella sera... La massima vicinanza che mai avessi avuto con Alberto. Pensando a quel misero albero di Roma, mi tornò in mente anche quel bosco nei pressi di Firenze... Chissà per quale motivo Alberto mi aveva portato lì... Chissà se ora era felice, se aveva seguito il mio consiglio, o un profondo cordoglio interiore lo stava assalendo al mio pensiero... Ma io avrei riposato in pace... Me ne sarei andata beatamente, felice come non mai... Felice di averlo trovato... Se solo ci fosse stato modo di farglielo sapere... Sorrisi, abbattuta, in quei pochi attimi che mi restavano. Ma sì, gliel'avrei fatto sapere da lassù. Mi sarei scelta una stella vicina al Cane Maggiore, per dirgli: "Vedi, ti ho seguito fino a qua su, anzi ti ho perfino preceduto... Ti aspetto, Lelapo...". Sì, avrei fatto senz'altro così. Alla fine, la volpe di Teumesso non era rimasta ancorata a terra, chi l'avrebbe mai detto... Mi auguravo solo che le parti non si fossero invertite, che, in preda al dolore, egli non fosse stato per sempre vincolato al suolo, non si fosse reciso da solo le ali... Ma no, Monica... Alberto avrebbe spiccato il volo... L'avrebbe fatto, e io l'avrei atteso in cielo. Sorrisi, un'ultima volta, e la macchina s'azionò. Sorprendentemente, quella volta non sentii nulla.
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Oltre il limite #wattys2022
General Fiction"Quella ero io: Monica Monti. Quella era la mia essenza, il mio essere, e avevo deciso di mostrarlo, piuttosto che recarmi a ritirare la maschera ch'era stata predisposta per il mio volto. M'ero mostrata, quasi imposta alla società, ma essa aveva de...