La notte che precedette l'udienza fu per me insopportabile. Il sonno che avevo ingenuamente sperato di poter acquisire mi fu negato, riscattato da un dolore lancinante incontenibile, sommato alle rimembranze delle vessazioni subite. Dunque, dovevo incolpare colui che mi aveva sempre aiutato e sostenuto di tutti i mali che la vita mi aveva inflitto? Dovevo proteggere la società corrotta nella quale mi ritrovavo, che avevo a lungo disprezzato e condannato? Il rimorso mi tormentava fino a provocarmi un malessere fisico, l'orrore per ciò che stavo per fare m'accompagnò sino alla mattina seguente, quando varcai il grande portone che mi avrebbe separato per sempre da Alberto. Le visioni infernali che erano sorte dal buio si protrassero per l'intera giornata seguente, la punizione inflittami dalla società per quella mia condizione mi gravava sulle spalle, rendendomi impotente, disgustosamente inerme. Dov'era il mio Signore, in quel vorticante incubo implacabile? Egli, che m'era sempre stato accanto, m'aveva consigliato e assistito, dov'era ora? Non ero forse l'umana sua prediletta? Ero così sbagliata da essere abbandonata persino dall'Onnipotente?
Non trovai risposta a quelle mie profane considerazioni. Sospirando, attraversai l'ampia sala come se fuochi ardenti mi ustionassero i piedi, il capo chinato, arreso, quasi non volesse osservare ciò che stavo per compiere. Proseguii inerme, come mi stessi dirigendo a grandi passi verso la mia morte segnata.
«Monica, ridestati! Non sei al Patibolo!», mi riprese duramente Alberto, accostandosi a me. La sua voce si fece però presto più tenera, quasi carezzevole, docile, mentre riprendeva, tentando vanamente di rincuorarmi: «Vedrai che andrà tutto per il meglio, amica mia. Svuoteremo finalmente quelle strutture che non sarebbero mai neppure dovute sorgere». E, con quelle parole, prima di sedersi, mi strinse deciso a sé, come guidato da un impulso improvviso. Forse, fu colto da un'inaspettata lungimiranza, poiché quella fu l'ultima volta che lo strinsi a me. Risposi caldamente a quell'abbraccio, all'ultimo che mi sarei potuta mai concedere.
Immediatamente, ci accomodammo ai nostri posti, dirimpetto al giudice che ci scrutava torvo, da dietro lenti spessissime, incorniciate da un nero color dell'ebano, che s'abbinava perfettamente alla veste severa che portava e alla poltrona altrettanto funerea. Dall'alto della sua massiccia scrivania, esordì, solenne: «Dunque, accomodatevi pure», e accompagnò l'invito cortese con un ampio gesto delle mani, riprendendo poi gelidamente, un cipiglio severo che gli sorgeva sul volto dall'espressione dura: «Alberto Angelici, dunque, abbiamo avuto modo di ricevere il suo atto di citazione. Sta dunque lei domandando una sentenza costitutiva?», chiese il giudice dinnanzi a noi, esortando così Alberto, che pareva d'un tratto esser divenuto timido e incerto, a esporre la propria causa. Il mio amico tentennò un poco, tacendo per qualche minuto, assentendo unicamente con un languido cenno del capo, dopodiché i suoi occhi s'accesero d'una fiamma carica d'ardore, assetata di giustizia. Rianimandosi, accalorato, Alberto iniziò finalmente a decretare: «Sì, Illustrissimo. Io, Alberto Angelici, richiedo una sentenza costitutiva a lei, venerando, e allo Stato italiano, nel tribunale di Siena in via Camollia. Ciò che condanno vivamente è il trattamento violento, spietato, che viene conferito ai pazienti delle varie strutture psichiatriche, in particolar modo a San Salvi, dove vessazioni fisiche e azioni al limite della legalità paiono essere ordine del giorno. Pertanto, richiedo con sentito ardore una maggiore attenzione, dei limiti imposti e rispettati, se non l'abolizione immediata di queste strutture infernali, che non fanno altro se non infliggere mali a coloro che ospitano, aggravando inoltre le condizioni di coloro che vi vengono ricoverati», dichiarò Alberto inflessibile. Il giudice lo scrutava da dietro la sua austera imponenza, con sguardo torvo, a tratti persino canzonatorio, come suggerivano le sopracciglia arcuate, a testimoniar tutta la sua viva incredulità.
«Dunque, ritengo che tali abomini, illegalità persino, offese alla dignità umana, debbano cessare», riprese altero, tonante, il mio amico, tentando di enfatizzare il proprio discorso ampolloso. Il petto in fuori, rigido, declamò: «Le prove delle ingiurie che vengono commesse sono inoltre alla portata di tutti, persino di un misero psichiatra quale me, esposte quasi con ostentata vanità alla popolazione, con sdegnosa e deprecabile fierezza. Ciò che ho voluto dimostrare con gli studi condotti, analizzando le condizioni di alcuni pazienti, è che, oltre a perder la propria dignità e la propria umanità, mano a mano, inizia a cessare persino il controllo di loro stessi. Con l'elettroshock, camicie di forza, legati a letti con catene come insignificanti detenuti, se non bestie, il loro cervello comincia a non riuscire più a sostenere i ritmi come precedentemente, non lavora più non solo egregiamente, ma come dovrebbe per garantire una propria e altrui sicurezza, una vita quantomeno sostenibile. Infatti, il cervello umano, a seguito di tali abomini che sono ancora oggi legali sotto il nome "terapie mediche", quando tutto v'è fuorché una minima traccia d'aspetto medico, assume un grave malfunzionamento, una degradazione delle facoltà cerebrali estesa, mai vista prima, sicuramente non preesistente, poiché registra ciò che accaduto come trauma. Di conseguenza, tali terapie sono prive della minima utilità, oltre a tormentare giorno e notte coloro a cui è stato inflitto tanto male. Ora, poiché credo che i fogli a vostra disposizione, dove ho riportato minuziosamente gli studi condotti con l'esempio della mia amica e testimone Monica Monti, che analizza il deterioramento e l'aggravamento della malattia dopo esser stata ricoverata per soli tre anni nella struttura psichiatrica di San Salvi, poiché credo, dicevo appunto, che essi parlino già abbastanza chiaramente e siano prove inconfutabili, poiché scientificamente provate, vorrei lasciare la parola ai testimoni, coloro che hanno provato sulla loro stessa pelle ciò che viene mostrato nelle fotografie a pochi centimetri da lei, signor giudice, in quella cartella, scattate non più di tre giorni fa da loro stessi», concluse Alberto, sedendosi nuovamente.
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Oltre il limite #wattys2022
General Fiction"Quella ero io: Monica Monti. Quella era la mia essenza, il mio essere, e avevo deciso di mostrarlo, piuttosto che recarmi a ritirare la maschera ch'era stata predisposta per il mio volto. M'ero mostrata, quasi imposta alla società, ma essa aveva de...