Conception

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Le ambizioni di Clyde erano più centrate della sua mira. Aveva due sputafuoco e ci sapeva beccare le palle di un gigante, ma se il bersaglio era di taglia ridotta (tipo un cristiano) faticava un po'. Non un granché di presentazione per un asesino. Con una premessa del genere, una targa nella Chiesa del Rock era un miraggio. Nessuna sorpresa che gli altri asesinos su piazza lo pigliassero per il culo. Ma Clyde sembrava convinto di potercela fare ad acchiappare una di quelle rockstar che svernavano in qualche buco di città dell'Entro-Terra, e sperava che la città fortunata fosse quella che si apprestava a raggiungere.

Si chiamava Conception (cazzo di nome, pensò mentre superava l'arco di legno) e pareva piuttosto piccola. Riusciva quasi a vederne la fine, se sforzava la vista. Le bicocche di legno ai lati della Via Maestra erano un indizio sulla nient'affatto florida condizione della città. Tutto aveva un'aria dismessa, smorta come un cimitero di pietra. Mancavano giusto le lapidi, le croci e l'immancabile statua dell'Angelo della Morte.

Forse ci siamo, pensò Clyde.

Quella merda di città gli pareva il posto perfetto per uno che volesse sparire dalla circolazione. Glielo dicevano l'intuito e quel poco di esperienza, che non era poi molta. L'intuito però ce l'aveva, e spesso ci prendeva. Come usava dire agli altri asesinos, lui andava a uosemo, che in lingua franca significava andare a sesto senso. Una volta aveva quasi beccato quel Tyler. Gli era sfuggito per un pelo. Ora il suo scalpo era nella Chiesa del Rock, e il nome sulla targa era quello di un certo Vince Vattelapesca.

Clyde si guardò in giro, in cerca del saloon. Ne individuò l'insegna (DRAGON'S FLAME, con tanto di drago sputafiamme) e, dopo aver legato il cavallo, entrò. All'interno c'erano poche facce e tutte imprigionate in una ragnatela di rughe. Clyde ne vide un paio che sembravano lì lì per schiattare. I bacucchi a cui appartenevano dovevano avere come minimo novanta inverni.

Raggiunse il bancone e chiese al barista da bere, quindi si sfilò di tasca una pergamena ripiegata in quattro parti e la fece scivolare sul bancone. Il barista, un uomo sui sessanta inverni, guardò il volto sulla pergamena, quindi fissò Clyde.

«Sei un cacciatore di teste?» chiese il barista.

«Una specie», fece Clyde. «Guarda 'sta testa e dimmi se ti ricorda qualcuno.»

Il barista guardò il viso disegnato con un carboncino sulla pergamena. Le labbra spesse e il naso camuso suggerivano una discendenza mulatta. Il cilindro, dal quale fuoriusciva una cascata di capelli lunga e riccia, suggeriva che il tizio sul quale pendeva la taglia di 30.000 bronzi non dovesse essere molto sveglio. Con un look così, qualunque asesino poteva individuarti nel giro di due secondi scarsi.

«Non mi pare», fece il barista.

«Fai conto che non c'abbia il cilindro», disse Clyde.

Il barista si accigliò, posò il gomito sul bancone e fissò il disegno. Dopo un po' scosse la testa.

«Nada», disse.

Clyde ripiegò la pergamena e se la ficcò in tasca. L'unica cosa da fare era annegare la delusione in due dita di torcibudella.

Facciamo quattro, si disse. Ordinò e attaccò a tracannare. Si pigliò una pausa solo per chiedere al barista: «C'è un posto dove fare la controra

«La che?» fece l'uomo.

«Un pisolino.»

«La pensione di Eveline. Sta più avanti. È la casa a due piani.»

Clyde finì di bere, pagò e uscì dopo aver battuto le nocche sul bancone: un vezzo che era anche il suo modo per congedarsi.

Mollò il cavallo a uno stalliere, che aveva forse un paio di inverni in meno di quei bacucchi del saloon che parevano in procinto di schiattare, e fece un salto alla pensione. La casa non era una catapecchia, ma si avviava in quella direzione. Clyde bussò. La porta s'aprì e sulla soglia apparve un donnone, fianchi larghi e un nido di capelli bianchi raccolti in una crocchia. Occupava tutta la soglia. Squadrò Clyde dall'alto, facendolo sentire piccolo come un marmocchio.

Acciaio, pallottole & demoniDove le storie prendono vita. Scoprilo ora