Caccia al negro

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Andarono a Conception e presero una stanza con la moquette che aveva una larga macchia color ruggine. Forse sangue. Qualcuno ci era morto male, a giudicare da quanto era estesa la chiazza. Si allargava fin sotto il letto. Guardarono sotto il letto, pensando di trovarci un cadavere, ma non c'era nulla.

«Meglio così», disse Panther.

Si lasciò cadere sul materasso e allungò le gambe. Intrecciò le dita dietro la testa e chiuse gli occhi. I capelli lunghi si sparsero sul cuscino come una cascata di alghe nere.

Riuscirebbe a ronfare nel mezzo di un bombardamento, pensò il ragazzo.

Cercò di imitarlo, ma la tensione era tanta che alla fine si alzò e andò in bagno per cambiare acqua al pipistrello. Sorrise. Quel modo di dire era di Panther, ma l'aveva sentito tante volte che oramai era diventato suo. Lasciò la porta socchiusa – un'abitudine consolidata anche quella – e sollevò il coperchio del water. Ciò che vide gli fece perdere l'equilibrio. Inciampò nei propri piedi mentre rinculava e cadde contro la porta, battendo la nuca e aprendola. Panther aprì un occhio, lo vide per terra che arretrava sui gomiti e balzò giù dal letto. Lo raggiunse.

«Che ti piglia?» chiese.

Gli occhi del ragazzo erano biglie che perdevano acqua. Le labbra tremavano. Panther lo afferrò per le spalle e lo costrinse a guardarlo.

«Parlami.»

Il ragazzo ci provò, ma gli uscì uno squittio. Riuscì però a indicare la tazza del cesso. Panther andò a controllare. Nel water c'era una testa. Aveva la lingua penzoloni, gli occhi rovesciati e i capelli arruffati come un nido di rondini. A giudicare dal colore della pelle era di un messicano. Ed ecco spiegata la macchia sulla moquette. Panther abbassò il coperchio e tornò dal ragazzo. Lo tirò su e si chiuse la porta del bagno alle spalle mentre lo sospingeva verso il letto e lo faceva sedere.

«Se ti scappa, falla nel lavandino o nella vasca.»

Gli venne in mente una cosa e tornò indietro. Entrò e buttò un occhio alla vasca. La tendina era chiusa. Annusò l'aria. Non era Chanel n°5, ma manco puzzava di cadavere. Si avvicinò alla tendina e la fece scorrere di lato. Nella vasca di ceramica intaccata c'era un robot disteso su un fianco, le ginocchia un po' piegate e le mani strette a pugno sotto il mento. Un vecchio modello. Come si chiamavano? C'avevano il nome di un cristiano...

«Che succede?» chiese il ragazzo dall'altra stanza.

«Niente», rispose Panther.

Eddie, gli venne in mente. Si chiamavano così. Quello nella vasca era rannicchiato in posizione fetale. Mancava solo che si succhiasse il pollice. Panther si girò un attimo verso il water. Il pensiero che gli attraversò il cervello era legittimo, ma quei vecchi modelli avevano inserite nella programmazione le tre leggi di Asimov, per cui...

Passi alle sue spalle. Si girò e trovò il ragazzo sulla soglia, pallido come un venusiano. Guardò Panther e poi la vasca. Da lì non poteva vedere l'Eddie e rivolse con gli occhi spaventati una domanda al suo compagno di viaggio.

«È un robot», disse Panther.

Gli occhi del ragazzo si illuminarono e riacquistò un po' di colorito alle guance. Gli piacevano i robot. Lanciò un'occhiata al water e scartò verso la vasca con passi brevi e svelti. Si affacciò oltre il bordo. Panther sorrise. Un po' perché il ragazzo aveva guardato il water come se si aspettasse che la testa del messicano balzasse fuori per morderlo, un po' per l'espressione estatica con cui ora il suo compagno di viaggio guardava l'Eddie.

«Che ci fa lì?» chiese il ragazzo.

«Bella domanda», fece Panther.

Il ragazzo si voltò ancora verso il water.

Acciaio, pallottole & demoniDove le storie prendono vita. Scoprilo ora