𝑪𝒂𝒑𝒊𝒕𝒐𝒍𝒐 𝒕𝒓𝒆𝒅𝒊𝒄𝒊

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Kageyama's p.o.v.

Il giorno dopo decidemmo di saltare gli allenamenti della mattina. In realtà nessuno di noi due avrebbe voluto, ma le scarse ore di sonno di entrambi non lasciavano molta scelta.
"Guarda che io ce la posso fare" aveva detto Hinata non appena si era svegliato. "Non sono così stanco!" dopodiché, nel tentativo di alzarsi, era caduto di faccia dal letto.
"Che senso ha andare agli allenamenti se non ti reggi neanche in piedi?"
Non aveva osato contraddirmi e si era ributtato sul cuscino.
Così mi ero disteso anche io accanto a lui, e avevo trascorso le successive due ore a fissare il soffitto per tentare di organizzare al meglio i miei pensieri.
Tutto quello che avevo scoperto su Hinata era stato... inaspettato. Il nostro stesso rapporto poteva essere definito tale. Era basato su una coincidenza. Stessa scuola, stesso sport, stessa squadra. Non ci eravamo cercati, non ci eravamo neanche mai visti prima. Eppure, avevo costruito con lui qualcosa che non mi era mai capitato di sperimentare con nessuno.
Cosa era per me, Shoyo?
Un compagno di squadra?
Un amico?
Il mio migliore amico?
Definire le persone per me era troppo difficile. Avevo sempre paura che il mio pensiero non fosse corrisposto.
La cosa certa era che con Hinata stavo bene. E non era anche l'unica cosa importante?
Era riuscito a mostrarmi il suo dolore.
Aveva abbassato tutte le sue barriere per farmi vedere ciò che proteggevano.
Mi aveva fatto scoprire un lato di sé nascosto agli occhi degli altri.
E lo aveva mostrato a me. Tra tutte le persone, aveva scelto proprio me. Perché?
Forse in quel momento si era sentito di farlo. Se ne sarebbe pentito?

L'Hinata che avevo conosciuto quasi un mese fa non era l'Hinata di ieri notte. Non riuscivo a conciliare l'immagine di Shoyo felice, sorridente e maldestro con lo Shoyo silenzioso, spaventato e distrutto di qualche ora prima. Non potevano essere la stessa persona, eppure era così. Entrambe le versioni di Hinata erano Hinata.
Non avevo considerato che apparire ed essere sono due cose diverse. E chi ero io per decidere quale faccia di Hinata fosse quella giusta?
Non sempre una persona sorridente è una persona felice.
Shoyo ne era il perfetto esempio.
Avrei solo voluto poter assorbire un po' di quel dolore che si portava dietro. Hinata Shoyo in realtà nascondeva un'anima costantemente tormentata. Tormentata da un passato fatto di violenza e paura. Potevo solo immaginare tutto il dolore che aveva dovuto sopportare.
Per la prima volta, sentii il bisogno di raccontargli a mia volta tutto ciò che mi era successo. Avrei voluto fargli capire che anche io avevo sofferto, che potevo comprendere come ci si sentisse a tenere segreto per tanto tempo qualcosa di grande.
Avrei voluto abbracciarlo.
Farlo sentire al sicuro.
Ma non potevo proteggerlo,
e per questo mi odiavo.

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Hinata's p.o.v.

Mi svegliai giusto in tempo per il pranzo. Nell'aria c'era un buon profumo.
Mi trascinai a fatica in cucina e rimasi a bocca aperta per quello che vidi.
Il tavolino nero della cucina era pieno di cibo, tanto da fare invidia a una delle cene di mia mamma.
Solo allora Tobio si accorse di me e, senza girarsi, esclamò un "buongiorno Shoyo!" e un "accomodati pure".
Il mio stomaco brontolò.
Mi ricordavo tutto di ieri sera.
Ogni parola che avevo pronunciato.
Ogni lacrima che avevo visto cadere prima sull'asfalto e poi sulle lenzuola.
"Se nessuno sa, nessuno può ferirmi." Così aveva detto Kageyama.
Io però gli avevo detto tante cose. Ora lui sapeva.
Allora perché non mi sentivo in colpa? Perché non avevo paura che potesse raccontarlo a qualcuno?
- Mi fido di te - era questo il motivo. Per questo gli avevo parlato del mio passato.
- Davvero? -
Sollevai la testa di scatto.
L'avevo detto ad alta voce.
Che stupido.
- Sì - dissi semplicemente. - Davvero -
Kageyama rimase immobile per qualche secondo, sempre girato di spalle. Si strusciò il braccio sugli occhi.
Si voltò poco dopo, e fece una cosa che non mi aspettavo. Sorrise.

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Finiti gli allenamenti del pomeriggio Tobio mi riaccompagnò a casa. Sembrava strano, quasi preoccupato.
Quando aprì la porta, mia mamma mi abbracciò come se non mi vedesse da una vita, e ringraziò un centinaio di volte Kageyama per essersi preso cura di me, assicurandogli che sarebbe potuto passare da noi in qualunque momento.
Passai il resto della giornata a fare i compiti, o almeno ci provai la prima mezz'ora. La mia concentrazione inesistente continuava ad impedirmi di scrivere la soluzione dell'esercizio.
Mi fermai e ripresi poco dopo.
Niente.
D'istinto mi ritrovai a cercare il numero di Tobio nella rubrica e avviai la chiamata.
Il telefono squillò. Una volta.
Due.
Tre.
"Andiamo..."
Quattro.
Alla quinta riattaccai.
"Forse è impegnato" eppure mi aveva detto che sarebbe rimasto a casa.
Quella sera telefonai altre tre volte, a orari diversi.
Non rispose mai.

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Il giorno seguente arrivai in palestra con ben due minuti di anticipo.
C'erano già tutti, o quasi.
Sugawara era in un angolo e parlava allegramente. Accanto a lui, Daichi era particolarmente assonnato e accennava dei sorrisi sparsi, sbattendo spesso gli occhi come se fosse sul punto di addormentarsi da un momento all'altro.
Seduti dall'altro lato della palestra c'erano Tsukishima e Yamaguchi, in piedi accanto a loro Asahi, Tanaka e Nishinoya, che arrivò di nascosto alle spalle di Asahi e gli saltò addosso. Nello stesso momento entrarono Ennoshita, Kinoshita e Narita, che mi salutarono. Ricambiai e cominciai a esaminare meglio le persone intorno a me.

- Tobio oggi non viene - era stato Sugawara a parlare.
- Come? -
- Ho visto che ti guardavi intorno. Non cercavi forse Tobio? - annuii.
- Ha detto perché non viene? -
- Lui... - Sugawara parve pensarci su.
- No, non l'ha detto. Magari ha avuto un imprevisto. Mi ha solo scritto che oggi non c'era. -
- Oh, ok... non è strano? -
- In effetti sì. Magari lo chiamo più tardi per sapere se sta bene. -
Lo ringraziai e corsi nello spogliatoio.
Era davvero strano.
Tobio che saltava l'allenamento, per di più senza dare una spiegazione.
Tobio che il giorno prima non aveva risposto a nessuna delle mie chiamate.
Tobio che mi aveva riaccompagnato a casa e sembrava preoccupato.
Non ero io ad essere paranoico.
Avevo imparato a capirlo.
Quello non era un comportamento da Tobio. Proprio per niente.
Non si presentò agli allenamenti del pomeriggio. Non rispose ai miei messaggi né alle mie chiamate.
Il giorno dopo passai a casa sua e suonai il campanello.
Ma lui non aprì.

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𝘾𝙤𝙪𝙣𝙩𝙞𝙣𝙜 𝙨𝙩𝙖𝙧𝙨 || ᵏᵃᵍᵉʰⁱⁿᵃ ♡︎Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora