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18 Maggio

Simone ancora si chiede come sia riuscito a convincere Manuel a tornare a casa la sera prima.

L'ha finalmente visto sparire soltanto intorno alle dieci, dopo una serie di suppliche dettate dal fatto che lo vedeva mentre cercava di trattenere gli sbadigli, seduto su quella scomoda sedia alla sua destra, mentre trascorreva il tempo stringendo la sua mano nella propria, facendo attenzione agli aghi e ai fili che gli hanno attaccato.
Le sue carezze erano delicate, lente, in netto contrasto con le lancette dell'orologio che sembravano rincorrersi.

Tutti sanno che il tempo trascorso in piacevole compagnia tende a contrarsi, e Simone – esperto di scienza, di numeri – sa che non c'è alcuna spiegazione fisica che potrebbe giustificare il dilatarsi del tempo o la sua cristallizzazione, eppure non può fare a meno di pensare che, in quel magazzino anche i più fugaci attimi parevano durare un'eternità, con Manuel, un'eternità non basterebbe a costituire un attimo.

Si chiede anche come sia possibile sentire la mancanza di qualcuno che non si vede da meno di nove ore, di qualcuno di cui – fino a due mesi prima – lui ignorava l'esistenza.

Si chiede come abbia vissuto, fino ad ora, senza tutto l'amore che gli esplode dentro ogni volta che guarda Manuel Ferro.

Si chiede quanto possa impiegare Manuel a raggiungerlo.

Quattro squilli aspetta, quattro squilli prima che Manuel risponda, con una voce roca che gli fa tremare il cuore.

«Buongiorno» biascica, e lui sente il disperato bisogno di averlo tra le mani, mentre quel buongiorno glielo ripete ogni mattina.

«Ciao Manu» ridacchia. «Dormivi, scusa» si affretta a dire. Non è una domanda.

«Non te preoccupa', come stai?» ribatte Manuel, con gli occhi sorridenti.

«Eh, n-non è che... che potresti, diciamo...» tenta di spiegare Simone, un po' in imbarazzo, ma forse complice anche lo stato di dormiveglia, Manuel non gli dà il tempo di continuare. È già scattato in piedi. Ha già il pantalone della tuta addosso.

«Ma che stai male? Che c'hai?» si affretta a chiedere, e Simone sente la sua voce lontana e affannata, preoccupata, il rumore delle chiavi, una porta che si apre.

E sta per rispondergli, per spiegargli che si sente bene, benissimo, è afflitto solo dalla sua mancanza, ma viene interrotto.
«No aspe', non di' niente, arrivo» sente soltanto, prima del susseguirsi degli squilli che segue l'interruzione di chiamata.

Sorride tra sé e sé, non immaginando minimamente di aver quasi causato un infarto al suo ragazzo.

Ragazzo che infatti dimentica anche di cambiarsi la maglia che usa come pigiama da giorni, maglia che è di Simone stesso.

Prende in prestito la moto di quest'ultimo, nonostante non debba muovere la spalla, nonostante gli piaccia guidarla solo se può farlo con l'altro stretto a lui. Deve fare presto. Quasi si schianta in un palo della luce, crede che riceverà così tante multe che non gli basterà lo stipendio di un mese per pagarle tutte, ma alla fine riesce ad arrivare in ospedale, per trovarsi poi di fronte un bambino nel corpo di un ventottenne che dorme.

Simone dorme beato, e lui sembra un pazzo. Ha ancora i segni del cuscino in faccia, i capelli arruffati, la maglia del pigiama che solo in quell'istante realizza essere di Simone, dei pantaloni francamente improponibili e delle converse rosse completamente fuori luogo. Si sente un cretino.

Credeva gli fosse successo qualcosa. Credeva che non si sentisse bene, non gli ha dato modo di spiegarsi, ha subito pensato al peggio. Sono le sette del mattino e lui si sente stanco e stupido, e innamorato. Forse è soltanto innamorato.

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