Il tempo di un bacio

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Chi muore giace,
Chi vive non si dà pace.
Anonimo


Kai

🧠

"Ci vediamo alla prossima seduta, Kai."

Il dottor Patrol aveva un modo tutto suo per porre fine ad una seduta in cui ho solamente guardato il soffitto. È la prima volta che lo vedo di persona, la sua carnagione scura e gli occhi castani lo rendono decisamente un bell'uomo. Attraente e carismatico, di certo non ottime qualità per un terapeuta perché non fa che attirare una grande folla di ragazzine, soprattutto il mercoledì. Purtroppo queste sue qualità non mi colpiscono minimamente, perché ad ogni seduta, quello che parla di più alla fine, è sempre lui.
Ogni mercoledì si ripete la stessa storia: Arrivo, lo saluto, mi siedo, lui prova a farmi parlare (fallendo) e passata un'ora mi lascia andare. Il mercoledì ormai è diventata la mia punizione per quello che non sono riuscito a fare, per ricordarmi che ho fallito, che non la raggiungerò mai a questo punto, perché ora sono controllato ad ogni ora del giorno.

Se fossi rimasto in Canada, forse, avrei potuto riuscirci un'altra volta.

Alla fine mi ritrovo qui, a parlare di me, cosa che non voglio fare. Non voglio superarlo, mi vergogno solamente di essere in grado di respirare. Questo però non fa che incitare Carl ed il dottore, perché per loro, queste ore sono indispensabili per me, per riuscire a parlarne.

Il dolore, che parolone, non è che un insignificante approssimazione per quello che sto provando. Ogni giorno faccio fatica ad alzarmi, e quando il mio cervello si sveglia ecco che tutto mi colpisce di nuovo. Mi si ritraggono tutti i muscoli, il respiro viene pian piano a mancare, il cuore inizia a fare sempre più male e le lacrime scendono lentamente sul mio viso. La testa pulsa e i pensieri corrono sempre verso quei dannati giorni in cui c'era, per ricordarmi che oggi, non c'è più. E ora, immobile sul pavimento, non faccio che pensare a quanto crudele sia questo mondo per avermi tolto l'unico raggio di sole che mi riscaldava in inverno.

Ma voi altri, direste solo che sto soffrendo, che sto provando un dolore immenso che mi rende impassibile a tutto quello che mi circonda. E avreste ragione in parte, infatti le parole del dottore credo siano state, "Kai ha difficoltà ad aprirsi, e non c'è da stupirsi, dopo tutto quello che ha passato..."

Vi risparmio il resto. Io ormai, ci ho fatto l'abitudine. Alle sedute, al silenzio, all'atteggiamento cauto, allo sguardo di compassione che mi viene lanciato ad ogni secondo. Perché non si può stare in questo mondo se non ti danno un nome per quello che sei o che sei diventato. Perciò, come gli altri, sono stato etichettato.

Il ragazzo che ha perso la madre.

Il ragazzo con un padre violento.

Il ragazzo che ha tentato il suicidio.

L'ultima è l'etichetta che preferisco meno. Tentato, mi ricorda ogni volta che non ci sono riuscito e adesso anche volendo, non posso far finta di stare bene, non posso più far finta di avere il controllo della mia vita, perché non è così. Quell'atto dice chiaramente che non è così.

È così che mi sono dimostrato, il mio fallimento, mi ha portato a questo.

Credevo di non risvegliarmi più, credevo di aver posto fine ai miei incubi, al mio tormento. Invece, eccomi qua, in piedi, che mi allontano dallo studio ed aspetto che lo zio finisca di parlare con Patrol. Tanto gli dirà sempre la solita cosa da due mesi a questa parte: "Non parla, non comunica, è rinchiuso in se stesso, ha bisogno di tempo."

Carl lo saluta, mi mette un braccio dietro la spalle ed insieme ci incamminiamo verso la macchina. Se è affranto per le mie sedute non lo fa trasparire, anzi sul suo volto c'è il solito sorriso carezzevole. Durante il percorso, il mio silenzio viene interrotto solo dalla musica della radio che mio zio prontamente accende al semaforo rosso. Mi riporta a casa, mentre lui torna al suo locale super in voga qui a Chicago. Il Capitol gli prende molto del suo tempo.

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