Capitolo 24

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Prima di leggere questo capitolo vi consiglio di riguardare velocemente il quattordicesimo, nello specifico la parte in cui Connor racconta del suo passato, e anche il ventesimo, se non ricordate le dinamiche legate a Emma.

Inoltre vi consiglio di non saltare lo spazio autrice, poiché vi lascerò un piccolo riepilogo degli sviluppi della trama, così da non perdervi nessun tassello.

Buona lettura ♥️

Ekaterinburg, Siberia Occidentale, 16 novembre 2019

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Ekaterinburg, Siberia Occidentale, 16 novembre 2019

Il primo pensiero che mi sfiorò la mente, non appena aprii gli occhi, fu che la mia schiena era ridotta a un ammasso di vertebre doloranti. Il secondo fu che Connor non era più sdraiato al mio fianco e che al mio corpo non piaceva affatto quell'assenza. Nonostante le coperte pesanti, il freddo pungente mi mordeva la pelle, rivestendola di brividi.

Puntai i gomiti sul materasso e sollevai il busto, osservandomi intorno. Sul comodino accanto al letto notai una scatola di pillole e un bicchiere d'acqua mezzo vuoto, dal quale dedussi che Reed si fosse già svegliato, magari per prendere un antidolorifico. Sentii il rumore dell'acqua che scorreva oltre la porta del bagno; stava facendo una doccia.

Alla luce di quella consapevolezza, un'idea mi attraversò fulminea: ero ancora in tempo per dileguarmi da quella stanza prima che Connor mi vedesse sveglia. Non avevo intenzione di ritrovarmelo di fronte né di parlare con lui, dopo la notte trascorsa insieme. Cosa avremmo dovuto dirci? Era stato tutto così surreale e improvviso che non avevo avuto ancora modo di metabolizzare gli eventi del giorno precedente.

L'imbarazzo mi dilagava dentro, arrivando a scottarmi le guance e attorcigliarmi le corde vocali, se ricordavo quanto fossimo stati vicini. Avevo dormito bene come non mi capitava da tempo, con il braccio di Reed intorno alla vita e il suo petto che aderiva al mio, incastrati in modo un po' contorto ma bellissimo. Ci eravamo riscaldati a vicenda e ci eravamo abbandonati l'uno nell'altra, senza barriere a ostacolarci. Avevo deciso di mostrarmi vulnerabile, rassicurata dal fatto che i suoi sensi non fossero vigili e che non avrebbe potuto assistere al mio crollo emotivo.

Ma ormai la notte era finita, e non c'era più il manto del buio a celare le mie debolezze. Mi ero promessa di ristabilire le difese della mia muraglia interiore per la mattina seguente. Era ciò che avrei fatto: sarei tornata a nascondermi nella mia bolla di spine acuminate, dove lui non avrebbe potuto raggiungermi senza ferirsi.

Guardai l'orario dallo schermo del telefono. Dovevo prepararmi per la missione, che sarebbe cominciata tra meno di dieci minuti. Scesi dal letto e mi vestii con la tenuta ancora macchiata del sangue di Connor, poi recuperai la cintura delle armi e gli scarponi. Mentre ero chinata ad allacciare le stringhe, una voce arrochita mi colse di sorpresa: «Dove stai scappando, Milady?».

Mi voltai e la figura di Connor occupò il mio intero campo visivo, in piedi sulla soglia del bagno. Stava frizionando i capelli umidi con un asciugamano, rimuovendo le gocce d'acqua impigliate tra i ciuffi castani. Mi scordai di ogni mio proposito di fuga, quando realizzai che indossava soltanto i pantaloni di una vecchia tuta larga. Studiai senza alcun pudore le linee definite del suo addome scoperto, il guizzo dei muscoli dell'avambraccio, sul quale era inciso il tatuaggio simbolo del Ghetto, e il sottile lembo di pelle più chiara che si intravedeva sopra l'orlo dei pantaloni.

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