Capitolo 1

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San Pietroburgo, Russia, 6 ottobre 2019

Sono sempre stata dell'idea che al mondo esistano luoghi troppo belli per essere contaminati dalla presenza umana.

Il Palazzo di Peterhof è uno di questi. Situato sul Golfo di Finlandia, a trenta chilometri da San Pietroburgo, è un complesso di regge e giardini edificato per ordine dello zar Pietro il Grande, tra il 1714 e il 1723.

Io avevo l'onore di trovarmi nel Gran Palazzo, la struttura principale dell'intero complesso. Le mie conoscenze in ambito architettonico erano buone, ma non abbastanza profonde per poter descrivere dignitosamente la meraviglia che mi si palesava davanti.

Quindi mi limitavo ad ammirare i mosaici intricati dei pavimenti, le colonne portanti che sostenevano un soffitto a volta ricoperto di affreschi, da cui scendevano grossi lampadari di gemme e cristalli, e i grandi quadri dalle cornici d'oro che vestivano le pareti di abiti di un'altra epoca, raccontata attraverso una pittura sapiente ed esperta.

Non mi stupiva che quel capolavoro in stile barocco si fosse guadagnato un posto nella lista delle Sette Meraviglie della Russia, nonché la nomina di Patrimonio dell'UNESCO.

Ciò che mi stupiva era che alcune delle più ricche famiglie russe avessero il permesso del governatore della città per utilizzare Peterhof come location privata delle loro serate di gala.

Era una cosa che mi faceva uscire di testa. Accettavo quegli stupidi turisti che si scattavano foto davanti alle imponenti fontane del Parco Inferiore solo per pubblicarle sui social, ma non avrei mai digerito quei bastardi mafiosi che rovinavano l'atmosfera fiabesca con le loro chiacchiere su giri di denaro e altra merda del mestiere.

Quella sera le mani mi prudevano più del solito per la voglia di ammazzarne qualcuno, e per fortuna individuai presto il mio obiettivo.

Non fu difficile riconoscere Vladilen Petrov. Mi era stato descritto esattamente come appariva: un uomo di mezza età, un po' smilzo e alto, con i capelli neri striati di bianco e una cicatrice sulla fronte.

Le voci sul suo conto narravano che un sicario di Mosca, al servizio di un boss nemico, gli avesse sparato un colpo in testa; tuttavia, forse per grazia divina, i soccorsi estrassero in tempo il proiettile, salvandogli la vita.

Cazzate sovrannaturali. Neanche Dio ne sarebbe uscito illeso, da un attacco simile. Ero certa che si fosse procurato la cicatrice da solo, magari per apparire più minaccioso o temibile.

Davvero una disgrazia che da lì a poco avrebbe fatto la mia conoscenza e che quelle leggende sarebbero diventate realtà. Con un finale diverso, però.

Finii in un sorso il contenuto del mio calice di champagne - detestavo quella schifezza con le bollicine e non capivo come potesse essere una bevanda tanto gettonata -, poi lasciai il bicchiere a un cameriere e mi incamminai verso Petrov.

Che inizino i giochi.

Sfilai sui tacchi con tutta la sensualità di cui disponevo. Non era molta, visti i miei atteggiamenti da terrorista, ma era anche quella la parte divertente delle missioni: fingersi un'altra persona. Finché non ti beccavano e non ti trovavi una pistola puntata contro, sia chiaro.

L'uomo mi adocchiò prima ancora che lo raggiungessi. Stava parlando con una donna dai folti capelli rossi, ingioiellata fino alle ossa, che sfoggiava un elaborato vestito di seta verde. Lei continuava a blaterare e Petrov la ignorava, concentrato sulla mia figura.

Scorsi il suo sguardo intenso, da lontano; i lineamenti segnati da alcune rughe si piegarono in un'espressione curiosa e famelica.

Trattenni un ghigno amaro. Erano tutti uguali, con la perversione ben radicata nel loro sangue sporco. Non importava che dimostrassi la metà dei suoi anni: la sua mente malata era già immersa nei più fantasiosi scenari.

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