Capitolo 5

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Ostankino, nord-est di Mosca, 12 ottobre 2019

«È in quel bosco da un'ora. Che cazzo sta facendo? Un pompino a un cervo?»

«Larysa,» la richiamai in un sibilo, «toglimi subito questa immagine dalla testa.»

«Scusa, non volevo sporcare la tua innocenza

«E comunque è un giardino botanico, non un bosco. Non ci sono animali» puntualizzai.

Lei roteò gli occhi, seccata. «Sono la stessa cosa.»

Lasciai perdere. Non valeva la pena mettersi a discutere con Larysa sulla quantità di alberi presente nello spazio recintato che stavamo tenendo sotto controllo.

«Sto per esaurire la pazienza» riprese a lamentarsi.

Serrai le dita intorno al volante per non allungarmi sul suo sedile e strapparle i capelli. «Tu mi stai esaurendo la pazienza.»

Per quanto le volessi bene, era veramente insopportabile quando si comportava così. Nel vocabolario di Larysa non esisteva la parola attesa e non trascorreva minuto senza che le sue polemiche rimbombassero nell'auto e nei miei poveri timpani. Colpa della sua iperattività, suppongo.

«Ecco il vecchio stronzo!» esclamò d'un tratto, appiccando il naso contro il vetro del finestrino.

La imitai e indirizzai lo sguardo verso i cancelli del Giardino Botanico di Mosca. Un uomo con un grosso borsone di cuoio che gli pendeva dalla spalla era appena uscito.

«Dannato ladro figlio di puttana» inveì Larysa, raddrizzandosi sul sedile. «Coraggio, seguilo.»

Aspettai che il nostro bersaglio salisse nella sua vettura e si allontanasse di un centinaio di metri, poi alzai il freno a mano e partii. Mi tenetti a debita distanza, mentre lo pedinavo, per non farci scoprire.

«Sta andando a Marfino» osservò Larysa, quando svoltammo nella Botanicheskaya Ulitsa, la strada che collegava Ostankino al quartiere da lei citato.

«A che scopo? La base operativa di Bykov si trova a Khamovniki» espressi la mia perplessità.

«Forse ha un laboratorio qui.»

La sua ipotesi venne confermata quando Bykov parcheggiò la macchina davanti a un edificio dalle pareti scrostate. Sembrava una specie di magazzino, di quelli che si affittano.

Mi fermai sul ciglio della strada opposta e scendemmo dall'auto solo dopo che l'uomo scomparve all'interno del magazzino. Legai il fodero della rivoltella - era un'arma d'epoca ma funzionale - e Larysa nascose un coltello in ogni stivale, poi ci avvicinammo alla struttura decadente.

«Andiamo sul retro» decisi, raggirando il perimetro. «Cerchiamo un...»

Non finii la frase perché Larysa mi strattonò il polso e mi tirò in ginocchio sull'erba bagnata. Mi schiacciò una mano sulla nuca, per abbassarmi la testa, e la fulminai stizzita.

«Sta' attenta» sussurrò, accennando alla parete del magazzino.

Restando accucciata, alzai lo sguardo. Non mi ero minimamente accorta delle finestre aperte. Mio malgrado, fui costretta a ringraziare Larysa per aver evitato che qualcuno mi vedesse.

Dei suoni metallici e delle voci ovattate provenivano dall'interno. Sporsi con molta attenzione il naso dal davanzale basso e analizzai la scena che mi si palesava davanti.

Il magazzino era arredato da file di tavoli di acciaio, sormontati da strumenti e macchinari. Ne riconobbi alcuni, perché li avevamo anche alla Villa. In un angolo, un cumulo di boccioli di papavero blu dagli steli recisi.

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