Capitolo 10

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Ghetto Zaffiro, sud-est di Mosca, 17 ottobre 2019

«¡La concha de tu madre

A svegliarmi furono le imprecazioni di Cheslav e un rumore insopportabile, che registrai in seguito come nocche che battevano contro la porta di metallo della roulotte.

Cheslav borbottò qualche altra maledizione in spagnolo e si alzò dal divano letto, privandomi del calore del suo corpo. Mi raggomitolai su me stessa e seppellii la testa nel cuscino, per proteggere le orecchie dal frenetico e continuo bussare. Chi cazzo era?

«Ah, sei tu, chiflada» sentii dire da Cheslav. Il suo tono di voce era a metà tra il fastidio e la sorpresa. «Se cerchi May...»

«Levati dalle palle, seggfej» sbottò l'latra persona, interrompendolo, e riconobbi il timbro acuto di Larysa.

Udii i suoi passi che percorrevano la breve distanza tra l'ingresso e il divano letto, poi improvvisamente mi furono strappate le coperte di dosso e una mano mi artigliò la spalla, scrollandomi con forza. Mi misi a sedere in uno scatto e riversai una valanga di proteste e insulti.

«Cazzo, LaLa!» sbraitai, spingendola. «Tienimi lontana dai tuoi attacchi di isteria.»

«Buongiorno, raggio di sole. Hai la faccia di chi ha passato la notte a scopare e intossicarsi» commentò, delicata come al solito, le labbra curvate in un ghigno.

Be', era la verità. Ieri io e Cheslav eravamo crollati l'uno sull'altra, travolti dalla stanchezza, dopo un pomeriggio e una serata di intenso divertimento. Era riuscito perfettamente nel suo intento di distrarmi dagli eventi degli ultimi giorni. Così perfettamente che sentivo gli effetti della droga ancora nel mio organismo, che mi rallentavano le sinapsi e i movimenti.

«Cosa ci fai qui? Non eri malata?» domandai a Larysa, strofinando gli occhi gonfi e assonnati.

«Tuo fratello mi ha chiamata. Era preoccupato. Non l'hai avvertito che avresti dormito con lo spacciatore messicano, stanotte.»

«Colombiano» lo corresse il sottoscritto, mentre si infilava una maglietta pulita. Quella che aveva indossato il giorno prima la portavo io ed era l'unico indumento a coprirmi. «E questo non ti dà il diritto di irrompere a casa mia come la pazza che sei.»

«Vivi in una roulotte sfasciata in mezzo a un parco abbandonato. Ringrazia che nessuno ti abbia ancora fatto una rapina» ribatté Larysa, pungente.

«Non tutti hanno la fortuna di avere un appartamento pagato dal fottuto boss!» esclamò Cheslav, alterandosi.

In risposta, Larysa sogghignò. Nei suoi occhi celesti, da gatta, brillava una sfumatura derisoria. «Io sono un sicario scelto, tu uno spacciatore. Non c'è bisogno di aggiungere altro.»

Ignorai il resto della discussione, che comprendeva insulti che variavano dallo spagnolo all'ungherese, e ripescai il telefono tra le lenzuola. Avevo tre chiamate perse da Danny e una decina di messaggi non letti.

Ero stata così occupata a maledirmi per il mio fallimento a San Pietroburgo da essermi dimenticata di lui. Meritavo il premio per la sorella peggiore dell'anno.

Guardai l'orario; era mezzogiorno. Gli scrissi che sarei tornata in tempo per il pranzo e che mi dispiaceva di averlo mollato da solo alla Villa.

Scesi dal divano letto e mi tolsi la maglietta di Cheslav per rimettere i miei vestiti. Mentre cercavo la fondina della pistola, mi accorsi che i miei migliori amici mi stavano fissando con una certa insistenza.

«Che volete?» proruppi, nervosa.

«Niente, niente. Magari la prossima volta evita di spogliarti davanti a due persone che hanno fantasie sessuali su di te» disse Larysa. «Sai che soffro di impulsività.»

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