Capitolo 24.

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FACCIO UN GIRO TURISTICO NELLA MIA VITA.

'Merda' fu la prima parola che fuoriuscì flebilmente dalle mie labbra. La mia voce era affannosa per aver buttato giù due porte con un dannatissimo tronco: non sapevo se le braccia si sarebbero mai riprese.
Il paesaggio davanti a noi era decisamente terrificante.
Davanti a noi si estendeva una landa tanto grande da poter ospitare tutta l'umanità (come in effetti era) e oltre.
Il terreno era incolto e potevo intravedere, per quanto mi era possibile per via delle troppe persone presenti, qualche arbusto e qualche graminacea. Fantastico! Ero pure allergica alle graminacee. Quei piccoli arbusti si muovevano sinuosamente e sprigionavano del liquido verde scuro: veleno.
Guardai su. Il cielo era di un rosso fuoco ed era coperto da alcune nubi dello stesso colore ma leggermente più chiaro. Non appena uno di quei mostri con la testa di serpente, che avevamo visto nei ricordi di Isabella e Arthur, volava sulle teste degli uomini e delle donne sofferenti, dei fulmini rossi squarciavano il cielo e tuoni possenti rimbombavano per la landa.
Fred schivò l'ala di una di quelle creature volanti abbassando di scatto la testa.
"CHE COSA FACCIAMO?" urlò Fred cercando di farsi sentire tra il boato  dei tuoni e il suono assordante dei pianti di letteralmente tutta l'umanità.
"DOBBIAMO TROVARE BEKVAL!" gridai allontanandomi di scatto da uno di quegli arbusti disgustosi che si avvicinava pericolosamente al mio piede.
"E COME CAZZO FACCIAMO A TROVARLO TRA OTTO MILIARDI DI PERSONE?".
Imprecai sottovoce, spremendomi le meningi per trovare una soluzione. Poi mi illuminai.
"USIAMO LA PENNA!".
Tastai la tasca dei jeans, pregando che non mi fosse scivolata durante la caduta nel tunnel. Fortunatamente era ancora lì, cosa che mi sciolse uno dei nodi di ansia che mi attanagliava lo stomaco da diverse ore.
"OK, FRED. ORA ASCOLTAMI BENE: ADESSO SEGUIAMO LA LUCE DELLA PENNA, TU AGGRAPPATI AL MIO BRACCIO E NON LASCIARLO PER NESSUN MOTIVO. CI MANCA SOLO CHE CI PERDIAMO TRA TUTTE QUESTE PERSONE".
Fred annuì vigorosamente e deglutì a vuoto. Sentivo l'adrenalina scorrere lungo la mia spina dorsale e potevo scommettere che lo stesso era per Fred.
Afferrò il mio braccio e insieme ci facemmo largo tra le persone, scontrandoci con loro almeno venti volte. Con il braccio libero tenevo alta la penna, che a nostro malincuore era ancora buia: Bekval era ancora lontano.
Dieci minuti, un quarto d'ora, mezz'ora. Camminavamo, sballottati qua e là dalle numerose persone intorno a noi. Eravamo stanchi...troppo stanchi. La penna non emanava nessuna luce. Guardai in alto con gli occhi socchiusi, sentendo la presa di Fred sul mio braccio farsi più lenta. I fulmini e le nuvole rosse cominciarono ad apparire sfocati davanti ai miei occhi. Mi girava la testa, avevo la gola secca. Avevo bisogno di acqua, cibo...
E fu così che caddi. Fred che si chinava accanto a me terrorizzato fu l'ultima cosa che vidi.

                                    *

Mi trovavo nel corridoio della mia scuola, completamente vuoto. In qualche modo sapevo di stare sognando ma non riuscivo a svegliarmi. Il corridoio si allungava davanti a me, deserto e buio. Aprii la prima porta di una classe proprio affianco a me, ma, al posto di trovare sedie e banchi vuoti, apparve una stanza d'ospedale. Sul letto era distesa una giovane donna dai capelli rossi e dagli occhi azzurri. Un sorriso gioioso le increspava le labbra. Mamma...
Appoggiata sul suo grembo c'era una bambina appena nata con inaspettati capelli rossicci, che cercava a tutti i costi di afferrare il naso della madre con le manine minuscole. Ero io...
Mi avevano sempre detto infatti di essere la bambina con più capelli del reparto maternità. I miei occhi diventarono lucidi quando vidi il sorriso gioioso di mia madre e il suo flebile sussurro quasi sorpreso: "Diana...".
Spostai lo sguardo sulla finestra e il sorriso sul mio volto si spense all'improvviso. Appoggiato al davanzale, con le caviglie incrociate e a braccia conserte, avvolto in un mantello nero lungo fino ai piedi, c'era Percival. Ora riuscivo bene a vedere i suoi lineamenti: i capelli neri disordinati con qualche striatura di grigio, la linea delle labbra sottile, gli occhi azzurrissimi, gli stessi di Isabella.
Sapevo che era apparso all'improvviso e che non faceva parte del ricordo, ma corsi ugualmente fuori dalla porta da cui ero entrata col cuore in gola.
Aprii un'altra porta nel corridoio e mi ritrovai nella strada di casa mia. Davanti a me camminavano un uomo dai folti capelli castani e dagli occhi verde mare, una donna dai capelli rossi e una bambina dai capelli dello stesso colore di quelli della madre. Probabilmente doveva avere quattro anni circa.
Presto ricordai che quelli eravamo io, mia madre e mio padre quattordici anni prima. Ci eravamo appena trasferiti dall'Inghilterra e ci stavamo dirigendo nella nostra nuova casa qui a Roma.
Sentivo mamma e papà parlare inglese, ovviamente ancora non abituati all'italiano.
"Sai, mi mancava l'Italia" disse mia madre parlando inglese ma con il suo evidente accento italiano, essendo nata e cresciuta qui.
"È normale. In un certo senso mi sento già legato a questo paese. Sono felice di essermi trasferito qui" rise mio padre nel suo perfetto inglese, poi si voltò verso la me bambina "e lo sarà anche la nostra piccola Diana, vero amore?".
La mini-Diana fece un sorrisino triste, poi mormorò: "Mamma, mi manca Helen...".
Helen...Ricordavo vagamente quella bambina, una mia vicina di casa a cui tenevo tanto.
Mia madre si voltò verso la mini-me e disse seria: "Lo so amore, ma l'Inghilterra è ormai un lontano ricordo. Adesso comincerai una nuova vita qui".
La bambina sbuffò. Lessi subito nel suo gesto la frase: 'Riportami subito in Inghilterra. Odio già questo posto'.
La me bambina non sapeva ancora quanto si fosse sbagliata.
A un certo punto mi fermai e li lasciai camminare da soli. Davanti a me, appoggiato a un albero, c'era di nuovo Percival, che mi guardava con un sorriso inquietante sul volto. Scappai di nuovo, trovando la porta dietro di me assurdamente fluttuante nell'aria.
Ero di nuovo nel corridoio. Iniziavo a capire. Stavo ripercorrendo i momenti più importanti della mia vita.
Decisi di aprire un'altra porta alla mia destra. Questa volta mi ritrovai davvero in una classe, la mia classe.
La maggior parte dei miei compagni, stranamente più piccoli, erano in piedi e giravano per la classe parlottando tra di loro. Altri erano seduti e ripetevano per la lezione successiva. Ascoltai quello che studiavano. Mi stupii quando sentii coniugare verbi greci all'aoristo. Ecco perchè i miei compagni sembravano più piccoli: eravamo in seconda.
Una ragazza attirò la mia attenzione. Era Ginevra, la mia migliore amica storica. Non era poi così diversa da oggi insomma: i boccoli biondi le cadevano morbidi sulle spalle e gli occhi blu scrutavano l'entrata dell'aula in attesa di qualcuno...in attesa di me. Infatti, quando una ragazza uguale a me in tutto e per tutto entrò nell'aula il volto di Ginevra si illuminò. Avevo quindici anni e il mio aspetto era cambiato poco. Gli stessi capelli rosso fuoco, le stesse lentiggini fastidiose spruzzate sulla punta del naso...la Diana di sempre. Avevo una faccia scocciata e all'improvviso mi ricordai perchè.
"Hey!"
Ginevra sorrise calorosamente, poi si accorse della faccia che la me di quindici anni aveva messo su.
"Cos'è quella faccia?".
La Diana del passato si strinse la coda di cavallo sulla testa, sbuffando.
"Ieri sono uscita con Luca".
Ginevra si aprì in un largo sorriso.
"Ma è fantastico! Perchè hai questa faccia scocciata allora?".
"Non credo sia andata bene".
"Diana, non farti le solite paranoie".
"Non mi ha ancora scritto".
Ginevra alzò gli occhi al cielo.
"Sono le otto del mattino, che ti aspetti? Vedrai che ti scriverà, tranquilla".
Guardai la scena con tristezza. Luca...quel grandissimo pezzo di merda.
Spostai lo sguardo sul resto della classe e strabuzzai gli occhi per l'ennesima volta. Seduto a un banco vuoto con una caviglia appoggiata su un ginocchio, Percival mi fissava.
Le gambe si mossero da sole e fuggii chiudendomi la porta alle spalle.
Ok, era letteralmente dappertutto, ma qualcosa mi diceva che dovevo continuare ad entrare nelle altre porte. Era una specie di tour nella mia vita: non sapevo a cosa mi servisse, ma questo non mi fermò. Così, sospirando, aprii un'altra porta.

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