Capitolo 17: tuono e fulmine -1°parte

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Solarbiom, città della regione Fiamma

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Solarbiom, città della regione Fiamma. 4 settembre 495, anno della Lira.

Non era un ruggito di drago il suono che il mantello scarlatto produceva mentre ondeggiava nella mensa della caserma. Ma un sussurro lieve e al tempo stesso deciso come i passi che risuonavano intorno alle reclute. Volteggi che furono accompagnati da cauti respiri, e falcate veloci scandite da battiti accelerati.

Le aspiranti guardie rimasero ammutolite riponendo i boccali sui tavoli mentre osservarono Ademaro avanzare verso di loro accompagnato da un uomo per nulla sorridente. La paura dei presenti venne presto alimentata dal silenzio che li circondava, e si elevò scorgendo che il giovane stava per parlare.

Nella mente del nobile prese forma un pensiero divenendo un insieme di parole. Per poi essere emesse dalle corde vocali, e infine vibrate sulle labbra con voce profonda. «Il tempo della prova è terminato. Sappiate che ciascuno di voi è stato osservato e valutato con attenzione senza alcun tipo di favoritismo. Il giudizio è definitivo perciò qualunque lamentela non verrà presa in considerazione» pronunciò il conte scrutando i volti che aveva davanti a sé.

Per un attimo pensò che fosse il caso di elargire un sorriso per abbattere il terrore che scorgeva negli occhi delle reclute. E proseguire a parlare con un tono più informale per frantumare la rigida postura che avevano assunto gli uomini nell'osservarlo. Tuttavia era così che gli aveva insegnato suo padre fin da bambino per ottenere il rispetto: essere imparziali, autoritari e rigorosi. Esibire un accenno di condiscendenza significava dimostrare di essere deboli, e questo non poteva permetterselo. Oltretutto lui era un nobile. Un rappresentante del ceto più elevato della società dove onore e dovere si bilanciavano a vicenda. La maggior parte di loro, invece, apparteneva al popolo. Non erano suoi pari, ma persone che dovevano obbedire senza protestare poiché la legge aveva stabilito che fossero gli aristocratici gli unici a comandare. Le stesse regole che gli vietavano di essere cordiale con tutti i plebei. 

Solo se aveva di fronte un membro appartenente al suo stesso status sociale non usava mai il voi. Il decreto reale, infatti, imponeva che si rimarcasse la differenza tra voi popolani e noi nobili. Delle regole essenziali per mantenere l'armonia e il rispetto in tutto il regno. E delle quali lui ne approvava ogni singola riga sebbene non ne condivideva alcuni punti. Ma questo lo teneva per sé, e anche il solo pensarlo lo rattristava perché era un atto di sfiducia contro il re. Una delle persone che più stimava nella sua vita. Rammentando che doveva dare per primo il buon esempio nel seguire alla lettera le norme del sovrano, proseguì a comportarsi in maniera autoritaria.

«Brancaleone, qual è l'esito della prova?» gli chiese protraendo una mano verso di lui.

«Quest'anno sono passati in pochi. Solo sei candidati. All'inizio promettevano bene, ma come ci si aspettava dai plebei sono caduti nei tranelli come polli. Non solo per quanto riguarda le birre. Non hanno esitato un solo istante a parlare male di te. Il che lo rende un comportamento da ribelli» gli riferì rimarcando l'ultima parola per poi consegnargli un foglio ripiegato.

Una moltitudine di bisbigli e malumori echeggiarono con sempre più intensità. Sguardi furiosi si abbatterono contro il volto sorridente di Brancaleone. Tuttavia bastò un'occhiata rigorosa di Ademaro per pietrificare tutte le bocche che fino a qualche attimo prima si erano dischiuse.

Scorgendo che il nobile divenne ancora più serio, il sedicenne si rallegrò per essere riuscito nel suo intento. Conosceva ogni sfaccettatura del carattere del suo amico, compreso ciò che più lo infastidiva. La parola ribelle era uno di quegli argomenti che lo rendeva furibondo in un battito di ciglia. Dal modo in cui vide Ademaro stringere il pezzo di carta comprese che era in procinto di rimandarli tutti a casa. Ciononostante era convinto che il giovane avrebbe risparmiato sei reclute. Le uniche aspiranti guardie di origini aristocratiche presenti nel gruppo. Non per favoritismi, il conte non ne elargiva mai a nessuno. Quanto per le virtù e i pregi fasulli che erano stati annotati a fianco ai nomi della lista. Era questo il suo obbiettivo: far infuriare Ademaro in modo indiretto, affinché accecato dall'ira non giudicasse in modo imparziale. In questo modo avrebbe ottenuto ciò che voleva: limitare la presenza dei plebei nelle file della guardia del castello.

Indisciplinato, maleducato, e incompetente si riflessero nelle iridi di Ademaro seguite da altrettante sillabe fino a quando i suoi occhi rimasero immobili a fissare la parola ribelle a fianco a una riga. Corrugando la fronte e serrando gli occhi a due piccole fessure puntò per un attimo le reclute osservandole una a una. Presto avrebbe pronunciato il nome riportato sulla lista dando l'ordine di cacciare quella persona con tempestività. L'aveva promesso a se stesso quando da piccolo era stato bersagliato da un pioggia di frutta, scagliata da una folla inferocita, che avrebbe detestato i rivoltosi per il resto della sua vita. Era stato difeso da alcune guardie che tuttavia non erano riuscite a deviare tutte le mele. Le ammaccature che riportò sulle braccia e sulle gambe svanirono dopo qualche giorno. Ma di quella esperienza ne fece una lezione di vita. Non avrebbe mai permesso a una persona con un simile temperamento di lavorare all'interno della scuola né tanto meno di incontrarla nel suo cammino. Non riusciva proprio a comprendere gli atti di ribellione che di tanto in tanto sorgevano nelle città periferiche del regno contro la nobiltà e il sovrano. Il re era buono e giusto. Generoso con i più umili eppure l'ingratitudine non desisteva a estinguersi.

Lo considerava imperdonabile che il popolo si ribellasse agli ordini impartiti dalla nobiltà. Secondo lui, era il minimo che i plebei dovevano adempiere come gesto di gratitudine nei loro confronti. In fondo, che ne sapevano delle norme che ciascun aristocratico era tenuto a osservare? Non c'erano solo balli, feste e chiacchiere ma obblighi a cui non potevano sottrarsi dal compierli. Non aveva mai messo in dubbio che sulle spalle del popolo gravava la fatica nel coltivare i campi. La responsabilità di costruire i beni essenziali per la vita quotidiana, e tutto ciò che occorreva all'esercito. Ma erano gli aristocratici a scendere in prima linea sul campo di battaglia e a versare lacrime e sangue sui terreni dove le guerre infuriavano. Erano sempre loro che pagavano più tasse garantendo prosperità e sicurezza per l'intero popolo.

Ispirando quanta più aria possibile, riprese il controllo dei suoi pensieri che lo stavano deviando dal suo compito. Era il figlio del presidente della scuola e non c'era margine di errore. Sarebbe stato imparziale e coerente con le direttive di suo padre seppure su un punto non era affatto d'accordo con lui: se scorgeva fra le reclute plebee una persona meritevole non avrebbe esitato a garantirgli un posto di lavoro. Nessuna priorità quindi al ceto di provenienza come desiderava suo papà, ma solo al talento. Notando l'eccessiva disparità tra il giudizio espresso per i popolani e per i nobili lanciò un'occhiata di rimprovero a Brancaleone, che si accentuò non appena lesse cosa ci fosse scritto a fianco a un nome.

«Qualche problema?» gli chiese il nobile notando Ademaro spalancare gli occhi per lo stupore.

«Perché è stato dato un giudizio alquanto negativo su Aureliano? Fra tutte le reclute finora ammesse, il suo curriculum è quello che mi aveva colpito di più. Puoi fornirmi una spiegazione, Brancaleone?» lo puntò severo.

«Ti ha chiamato con l'appellativo sua altezza arroganza» pronunciò fiero.

«Signore, non mi permetterei mai di fare una simile affermazione. Non sono stato io a pronunciarlo» esordì un ragazzo dalla folta capigliatura castana compiendo un passo in avanti.

«Vi credo e non occorre che mi diciate altro. È stato il termine altezza a farmi intuire che l'appellativo provenisse da un'altra fonte» pronunciò infastidito direzionando lo sguardo verso il suo amico.

«I soldati mantengono un linguaggio sempliciotto. A tratti rozzo. Non sono abituati a parlare a corte. Figuriamoci se osano pronunciare sua altezza. Ricordati la prossima volta che ti fingerai lui» puntò il dito verso Andrea.


La Fenice del vento - Fiore di PeoniaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora