🪲Ventunesimo capitolo 𓂀

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La mattina successiva Erdie si svegliò senza maledire il sole. Si sentiva appena meglio rispetto ai giorni addietro.

«Mia piccola Erdie, sei già sveglia? » era stata la voce di suo padre a parlare, quel suono le permise di svegliarsi davvero. Sorrise guardando in direzione della tenda che fungeva da porta. Suo padre era lì, fermo, a guardarla con amore vestito solo di un gonnellino chiaro che contrastava con la sua pelle scura.

«Sì» rispose.
Dopo la morte di sua sorella si era resa conto di voler molto bene a suo padre e di tenere a lui più di quanto immaginasse.  
Era una persona piena di risorse. Erdie lo aveva sempre guardato con ammirazione e un pizzico di invidia. Riusciva ad essere un ottimo architetto e un ottimo medico, senza contare la sua smisurata cultura.
Capiva bene perché sua madre si fosse innamorata di lui. 

Imhotep si avvicinò al letto della figlia studiando senza invadenza il braccio non ancora del tutto guarito. Vi era ancora del gonfiore e attorno alle croste scure la pelle era viola.

«Il braccio ti duole meno oggi? » non le chiese come si sentiva, sapeva bene che le ferite più profonde e pericolose non erano visibili agli occhi.
Il discorso che le aveva fatto il giorno prima certo non l'avrebbe risollevata di colpo. Quelle parole  andavano sentite oltre che udite.

La ragazza alzò il braccio con estrema fatica, guardando con indifferenza quanto fosse distrutto. Ma almeno i tendini le facevamo meno male.
«Abbastanza» rispose con un sorriso tirato.   
«Ho usato delle creme particolari su di te e ho recitato formule destinate solo al figlio di Ra».

Erdie gli rispose con un sorriso molto dolce. 
«Adesso devi alzarti dal letto e fare almeno qualche passo da sola, altrimenti il tuo corpo non riuscirà più a muoversi bene» la ragazza non prese bene quella notizia, ma suo padre insistette a tal punto che alla fine ci provò.

Le sue gambe sembravano non riuscire più a sostenere il peso anche se era dimagrita così tanto che la pelle aderiva alle ossa, ed esse spuntavano a tal punto che sul corpo erano comparsi dei lividi.

Erdie tentò di fare qualche passo, ma finì fra le braccia di suo padre. Il suo sguardo così cadde sul letto vuoto della sorella e non riuscì ad impedire ai suoi occhi di inumidirsi.

«Non temere figlia mia. Ben presto e se riprenderai a mangiare correttamente, ti rimetterai entro la stagione di Shemu».

«Questa notte ho pensato alle vostre parole padre. Anche io mi sono spesso presa gioco degli dei con enorme orrore di mia sorella. Era me che volevano punire...» pianse ancora, perché il dolore era troppo forte per non sfogarlo «Non era Mine che doveva morire. Non erano i suoi resti a dover giacere sul fondale limoso» la voce della ragazza era ormai un sussurro graffiante «Gli dei volevano punire me» ripetè come preda di un incubo.

Imhotep le accarezzò il capo riportandola a letto. Come lui da giovane, Erdie era sempre stata scettica, non aveva mai trovato nel suo cuore il rispetto per gli dei.

«Gli dei sanno sempre cosa è meglio per noi uomini. Mine adesso continua a vagare per la valle dei nostri antenati poiché il suo corpo è andato distrutto. Ma noi ne conserveremo il nome per donarle la vita eterna».

«Credete davvero, padre, che basterà il suo nome per mantenerla in vita anche ora che è morta? »

«Figlia mia » la riprese con dolcezza «il nome viene dato ai bambini per permettere loro di avere un destino. E il destino non si ferma neanche davanti alla morte».

Erdie non fece realmente caso a queste parole, eppure l'uomo le aveva detto qualcosa che lei avrebbe ben capito solo continuando a vivere.
Il destino non si sarebbe mai fermato davanti a nulla, avrebbe sempre agito quando meno lo si aspetti.

«Io mi chiedo solo se ci crediate davvero».
«Certo e devi farlo anche tu» continuò con un sorriso dolce.
«Appena ti sentirai un po' meglio ti porterò nella tomba di Mine. Ho diretto io stesso i lavori».
«Allora deve essere bellissima».
«Voglio depositare con te la stele con il suo nome e il suo epitaffio».

Erdie sorrise. «Sto bene. Voglio andarci adesso» era davvero convinta delle sue parole.
«Ma ancora non riesci a camminare...» tentò di dissuaderla, ma lo sguardo di Erdie era deciso a tal punto che l'uomo fu costretto ad accontentarla. «Va bene. Ci recheremo dopo il tramonto. Ma adesso riposa».

L'uomo uscì e in silenzio le si avvicinò Krio con una bacinella e uno straccio per pulirle il corpo ed eliminare il pus che si ostinava ancora a formarsi.

«Signora, ci tenevo a dirle che se vuole vengo con lei. La morte di vostra sorella mi ha straziato il cuore. Ho pianto molto».
«Certo Krio. Non vedo perché dovrei impedirti di venire».

«Avevo anche io una sorella, e due fratelli, tutti più grandi di me. Sono morti durante la guerra. Conosco bene il vostro dolore...».

Erdie le tolse gentilmente lo straccio dalle mani e la invitó a sedersi sulla stuoia. Alla fine erano rimaste solo loro due.

«Vuoi scrivere anche tu qualcosa per loro? Conosci mia sorella, condividerebbe volentieri anche la sua tomba».
Un sorriso amaro si dipinse sul volto di entrambe, un sorriso che poi divenne un pianto sommesso.

«Purtroppo non so scrivere signora» rispose Krio, asciugandosi le lacrime.
«Allora ti insegnerò a farlo».
La schiava annuì debolmente, per poi sciogliersi in lacrime.

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