- Vorrei solo che potessi sentire quello che provo senza bisogno di parlare... - lo dissi piano, quasi a non voler disturbare quel silenzio che si era creato... - Vorrei solo che potessi leggere il mio sguardo e capire... - continuai con il terrore...
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Le valigie erano pronte, la casa era vuota ormai e solo poche cose, non sue, erano adagiate sullo snake, stava guardando quelle mura per l'ultima volta, sentiva ancora le risate, le liti, perfino i gemiti ma ormai tutto era passato. Lui, l'altro, la loro vita insieme, ogni cosa aveva perso il suo significato e lui non poteva più rimanere in quella casa, in quella via, in quella città, così prese un ultimo respiro e con quel peso nel petto uscì di casa chiudendosi la porta alle spalle. Tutto sarebbe passato, ogni cosa sarebbe diventata un ricordo, magari anche piacevole ma lui voleva solo ricominciare, voleva solo ritrovare se stesso, essere di nuovo felice.
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Jungkook Pov
Mi piaceva volare di sera, vedere le luci delle città, studiarne la conformazione, mi piaceva sapere che molti erano già a letto, o stavano cenando, o scopavano da qualche parte nascosti proprio da quelle luci, a lui piaceva farlo con la luce, mi diceva sempre che amava guardare come godevo, che gli piacevano le mie espressioni. Adesso sospiro chiedendomi se il suo non era stato solo ed esclusivamente sesso: - Posso portarle qualcosa da bere? - l'hostess parlava piano perché la maggior parte dei passeggeri dormiva, io le fui grato per avermi distolto dai miei pensieri ma, sorridendole, feci no con la testa. Volevo solo guardare fuori, ascoltare la mia musica e sperare di non aver fatto un fottutissimo errore, e proprio in quel momento, Changbin cantava: "Il dolore cresce silenzioso, chiuso in una stanza senza uscita... ho bisogno di qualcuno prima di crollare... chiedetemi se sto bene, per favore*..." ma a me nessuno l'aveva chiesto quando tutto mi era crollato addosso. Nessuno si era fermato a vedere se stessi bene, quei pochi che erano rimasti mi guardavano come se fossi una persona sconosciuta e probabilmente, per loro, lo ero sempre stato; un Jungkook diverso, un Jungkook estraneo perfino a me stesso. Eppure riuscii a dormire dopo giorni di terribile insonnia, non mi accorsi del volo e non mi accorsi che la playlist fosse andata avanti e, quando aprii gli occhi, eravamo già atterrati e stavano per procedere a far scendere i passeggeri, presi ogni mio affetto e salutando nuovamente la hostess, scesi dal veicolo percorrendo quel corridoio che mi avrebbe portato ad una nuova vita.
Seattle era bella proprio come me la immaginavo, enorme rispetto alla mia città, piena di gente di ogni nazionalità e piena di storia, oltre ad essere la casa della mia serie preferita e di quei libri che ho divorato d'un fiato, certo non sarebbe stato facile ambientarmi ma questo non mi avrebbe fermato. Mi aspettava il tirocinio, la nuova casa, nuovi amici e perché no, un nuovo amore, magari quella volta chiunque avessi incontrato mi avrebbe visto per come ero realmente e non per come avrebbe voluto che io fossi: - Il signor Jeon? - un signore vestito di tutto punto chiamò il mio nome, non mi ero reso conto che avesse un piccolo cartello con su il mio nome: - Si... - risposi con titubanza e quell'uomo sorriso dolce come se non fosse la prima volta per lui. - Sono stato mandato per portarlo nel suo nuovo alloggio, il signor Moore ci tiene a farvi sentire a casa e in famiglia. - il signor Moore altri non era che il mio nuovo datore di lavoro, il magnate per eccellenza delle Moore Industries, quasi la maggior parte dei palazzi importanti a Seattle e dintorni erano stati progettati da lui e dal suo staff ed io avevo avuto fortuna ad entrare nel programma. Solo quattro erano passati, da quello che avevo sentito e la convocazione era arrivata a pennello, visto i precedenti: - Spero che il viaggio sia andato bene signor Jeon. - spostai lo sguardo sul conducente, mi chiesi da quanto facesse questo lavoro: - Ho dormito per tutto il tempo in verità e può chiamarmi Jungkook o Kook, non c'è bisogno di essere così formali. - sorrise quell'uomo ma nonostante tutto, continuò a chiamarmi signor Jeon. Arrivammo in un grande plesso residenziale, i palazzi erano stati costruiti da poco e c'era il tocco inconfondibile della Moore Industries, erano gli alloggi dei dipendenti del signor Moore, la mia nuova casa; al piano quarantotto c'erano tre porte, una delle quali era la mia, interno 249. Quando aprii la porta non mi sarei aspettato un intera parete a vetro che mi dava la vista sullo Space Needle: - Porca troia... - un cesto sull'isola della cucina riportava la dicitura: "Spero che l'appartamento sia di suo gradimento, la vista quanto meno lascia senza fiato. A lunedì per la sua nuova vita! Mr. Moore." scritto addirittura di suo pugno, sicuramente stavo sognando e mi sarei svegliato prima o poi ma, cazzo, era perfino più di ciò che mi aspettassi.
Avevo due giorni prima dell'inizio del tirocinio così decisi di visitare un po' la città, capire come muovermi, vedere la distanza che c'era dall'appartamento fino alla Moore Industries, mangiare tutte le cose strane che avevano in America e godermi quei momenti in totale solitudine. Avvisai mio padre dell'arrivo in città e lasciando volutamente il telefono in casa, uscii alla scoperta di Seattle, non troppo diversa da Busan per traffico e marea di gente ma gli odori, Dio quelli mi mandavano ai matti, visitai per lo più i posti che avevo visto sullo schermo, come il Fisher Plaza, o il quartiere Queen Anne, mi sedetti perfino su una delle panchine del Kerry Park. O quelli dei libri che avevo letto o per meglio dire, divorati, arrivando perfino a Vancouver solo per vedere il Bentall 5, quell'enorme grattacielo fatto di specchi; sono un romanticone esattamente come Anastasia, colpa principalmente dell'amore che raccontava mia madre, che parlano nei libri o che decantano nelle poesie. Non che abbia avuto un amore perfetto nella mia vita ma ci credevo ancora e forse quella città mi avrebbe mostrato che avevo ragione, fu meraviglioso vedere quei posti nuovi e lo fu altrettanto arrivare a casa e addormentarmi nemmeno fossi stato un bambino. Eppure il grande giorno era arrivato, la sveglia era suonata due ore prima dell'inizio del tirocinio perché odiavo arrivare in ritardo e mi ci volevano ben venti minuti a piedi per arrivare alla società ma fu bello vedere quella grande città svegliarsi poco a poco. Quando arrivai davanti l'ingresso vidi un ragazzo di poco più basso di me, aveva una tracolla nera con le spille di Stitch qui e là e non riuscii a non sorridere, che fosse anche lui un tirocinante? Aveva una specie di mullet di un rosso particolare, molto bello soprattutto alla luce del sole; il corpo era tonico potevo vederlo mano a mano che gli arrivavo vicino ma quando si voltò alzando lo sguardo verso di me, mi fermai.
I suoi occhi erano di un verde che non riuscivo a decifrare ma non era tanto il colore, fu il suo dannato sguardo, mi aveva tenuto incatenato sul cazzo di marciapiede senza riuscire a muovermi e quelle labbra, rosse esattamente come i suoi capelli e grandi, due enormi cuscini incantevoli. Solo dopo mi accorsi che fosse asiatico esattamente come me: - Ciao, anche tu per il tirocinio? - chiese, sorridendo poco dopo, ma porca troia si poteva essere così belli? Era legale quella piccola personcina? - Mmm... - sbattei di poco le palpebre avvicinandomi del tutto: - Sei coreano? - e quella volta lo chiese nella nostra lingua e non riuscii a non sorridere: - Ne, Busan, mi chiamo Jungkook. - allungai la mano sentendo la sua stringerla e di nuovo quel sorriso che gli formava delle leggere fossette ai lati del viso. - Davvero? Busan? Anch'io, Hoedong-dong, non ci credo.. quante probabilità c'erano? Comunque mi chiamo Jimin... - mi piaceva quella piccola personcina, mi piaceva la sua calma, mi piaceva il suo nome e scoprii che era piacevole perfino parlarci. Ma aveva ragione, quante probabilità c'erano, venivamo dalla stessa città in cui non ci eravamo mai incontrati e presi per un tirocinio nella stessa azienda, l'avesse saputo JiHyun avrebbe detto che il destino aveva già scritto tutto.
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Non credeva molto al destino, alle coincidenze, alle leggende giapponesi che parlavano di fili e anime gemelle, era troppo razionale per farlo eppure, in quei momenti prima dell'inizio, non riuscì a non chiedersi se avesse messo troppo cinismo in quelle favole della buona notte che la sua mamma amava raccontargli. Non che si stesse innamorando o cose simili, non lo conosceva affatto ma sentiva che tutto era diventato, come dire... giusto, nel momento in cui quegli occhi si erano posati su di lui.