Capitolo 13

1.1K 15 0
                                    


Di colpo mi accorgo che c'è troppo silenzio intorno a me, perché nessuno parla?

«Be', che cosa sono quelle facce?» chiedo, nascondendo il disagio dietro l'irritazione.

È Linda a rispondermi mentre il fastidio sul suo volto si trasforma in aperta disapprovazione. «Cos'era quello?»

Mi infastidisco nel sentirla riferirsi a Dimitri come se fosse una cosa. Ignoro quella domanda posta con malagrazia per rispondere a quella che leggo sul viso di tutti. «Mi ha salvato la vita.»

«Ma è come noi? Cioè sembra umano, però ci sono anche mostri umanoidi» Elisa si zittisce all'improvviso quando la guardo, sembra che abbia paura che le ringhi contro e cerca di farsi più piccola di quello che è. Mi accorgo che quello è il dubbio che ha assillato tutti loro, quando hanno visto Dimitri con me.

«Certo che è umano!» sento me stessa sbottare quasi sulla difensiva. «Sarei viva altrimenti?» insinuo.

L'incertezza non abbandona i loro occhi, posso immaginarmi i loro pensieri: «Non è venuto con noi, né appartiene al gruppo precedente. Nessuno ci ha avvisato che ci saremmo potuti imbattere in un essere umano disperso.» Non è il caso di aggiungere che lui mi ha detto di essere cresciuto qui.

Non avendo voglia di sorbirmi altre domande simili, decido che è venuto il momento di dare una mano a mettere a posto l'accampamento, che sembra davvero essere stato travolto da un uragano. Dopo poco Elisa si affianca a me, sembra ancora titubante e la cosa mi dispiace, io non volevo spaventare nessuno. Noto uno strano simbolo campeggiare marrone in campo verde sulla manica della sua spalla sinistra, prima ancora che il ricordo legato a esso mi torni in mente lancio un'occhiata alla mia spalla destra. Ne porto uno identico, è un arco di legno stilizzato con una freccia già incoccata, il simbolo dell'Accademia degli arcieri, ognuno di noi che ne fa parte lo porta ricamato sulla spalla del braccio che usa per scoccare. Elisa a differenza di me è mancina, per questo il suo è sulla sinistra.

È il nostro «distintivo» per così dire, definisce a quale accademia di combattimento apparteniamo, sempre che avessimo scelto di imparare a maneggiare un'arma. Anche gli altri portano una spilla simile, solo che il simbolo e i colori su di essa sono differenti in base alla tipologia di arma scelta: una spada, un'ascia o, per quanto riguarda Nick, un pugnale.

«Stai bene?» mi chiede, il suo sguardo si è posato sulla fasciatura improvvisata del mio braccio. Mi sono rimboccata letteralmente le maniche nel mettermi al lavoro, senza pensarci. Le tiro di nuovo giù in fretta, sperando che nessun altro l'abbia notata, e annuisco.

«Non è stato lui.» aggiungo, di nuovo sulla difensiva.

Elisa sorride, un sorriso vero alla fine, né titubante né accondiscente, solo sincero. «Lo so. Non avrebbe avuto senso altrimenti.»

Da come lo ha detto, sembra essere più che sicura di cosa Dimitri potesse o volesse fare, ben più sicura di me che l'ho visto in azione. Forse la sua paura, quando lo ha visto al mio fianco, è stata dettata davvero solo dal presupposto che non lo conosce e ha temuto che fosse un altro nemico da combattere. E forse è stata anche colpa del fatto che hanno appena subito un attacco da quei mostri, rifletto ricordando le condizioni dell'accampamento.

«Cos'è successo qui? Sembra sia passato un tornado.» chiedo a Elisa.

«Qualcosa di simile. Dopo che te ne sei andata, i mostri ci hanno attaccato. Non c'era nessuno, c'eravamo divisi in squadre per cercare te.»

Ero arrabbiata dopo aver scoperto che Richard non avrebbe partecipato alla prova. La notte in cui ho capito, senza poter più accampare scuse per il comportamento elusivo del mio ragazzo, che lui non si è mai iscritto. Ha detto che il suo sarebbe stato un percorso diverso e ci saremmo incontrati solo una volta varcati la soglia del recinto in cui si sarebbe svolto il Progetto Alexander, invece ha mentito. Non ha goduto di nessun trattamento preferenziale perché non si è mai iscritto al progetto di cui ha parlato in maniera tanto entusiasta. Mi blocco mentre sto raccogliendo i piatti sparsi intorno, i ricordi ora sembrano più nitidi, come se si fosse aperta una valvola e il flusso ora fosse copioso e senza impedimenti. Ringrazio che tutto il gruppo sia stato impegnato nella mia ricerca e nessuno si è trovato lì in quel momento, per essere colto di sorpresa.

«Quando Mattia e Mara sono tornati, hanno trovato i mostri che distruggevano le provviste che ci hanno dato. Hanno chiamato gli altri e li abbiamo attaccati tutti insieme, erano solo un paio e ce la siamo cavata. Ma Katy, davvero, nessuno ci aveva detto che erano così forti!»

«Qualcuno si è fatto male?»

«Solo qualche taglio superficiale. Siamo rimasti qui in attesa che tornassi, abbiamo fatto a turno nelle ricerche per non perdere quello che c'era rimasto.»

Mi sento in colpa, avrebbero fatto meglio a spostarsi dato che due mostri avevano trovato il campo, ma erano rimasti per me.

Il nome Richard mi ha portato alla mente l'immagine di un giovane, a dispetto del nome, italianissimo, i cui genitori amano Riccardo Cuor di Leone. Lo stesso che ho cercato di ricordare senza successo quando ero insieme a Dimitri, ma curiosamente la «didascalia informativa», che accompagnava questi sprazzi di ricordi, questa volta non è stata quella che mi sarei potuta aspettare. Nessun «ragazzo» o «fidanzato», bensì un alquanto ambiguo e poco carino «l'equivalente di Matteo». Lascio perdere questa stranezza.

«Tu stai bene?» chiedo a Elisa.

«Io non mi sono fatta nulla. Il bello di attaccare da lontano, immagino.»

Ne sono sollevata, ho promesso alla sua sorellina che non le sarebbe accaduto niente e che saremmo tornate entrambe sane e salve a casa.

Mi sento tutt'a un tratto stanca, no, sonnolenta è il termine giusto. Il corpo vorrebbe lavorare ancora, ma la mente chiama il sonno. Capisco che sono le avvisaglie del «passaggio», mi avrebbero aiutato a non svenire di colpo, se avessi imparato ad ascoltarle. Sbadiglio.

«C'è un posto dove posso riposarmi un attimo?» chiedo. «Nemmeno io sono riuscita a chiudere occhio per due notti.» Sono contenta alla prospettiva di tornare alla mia realtà, soprattutto ora che ho ricavato qualche informazione, seppur vaga, sulla mia vita di qua.

Elisa annuisce e mi sorride complice. «Abbiamo messo lì le coperte e i sacchi a pelo.» dice indicandomi un mucchio preciso poco distante da noi.

La ringrazio e, una volta infilata fra le coperte, smetto di opporre resistenza al sonno.

Non del tutto sveglia allungo il braccio sul comodino, tastando con le dita sulla superficie di legno alla ricerca del cellulare, per zittirlo prima che svegli anche i miei genitori. Ancora con gli occhi chiusi, accetto la chiamata e mi porto il telefono all'orecchio. Lo allontano in fretta di qualche centimetro con un sussulto, quando la voce del mio interlocutore raggiunge troppo alta i miei poveri timpani.

È Matteo, non so come faccio a riconoscerlo in mezzo al frastuono di sottofondo, senza guardare il suo nome che lampeggia sul display. Do un'occhiata alla sveglia, le lancette luminose segnano che manca qualche minuto all'una. Il frastuono prende un senso a quell'osservazione, il mio ragazzo deve essere in discoteca come ogni domenica notte da quando ci siamo conosciuti. Ci diamo sempre appuntamento a quella in cui ci siamo incontrati alla festa di Serena, giusto a metà strada fra casa mia e casa sua. È anche la più gettonata da quelli della nostra età, per cui il pienone è sempre assicurato.

Nella musica martellante colgo a stento la sua domanda e ne interpreto il senso: vuole sapere perché in quel preciso momento non sono al suo fianco a divertirmi, ballando e bevendo qualcosa. Il suo interesse, anche se mi ha strappato ai sogni proprio quando stavo per avere la possibilità di capirne qualcosa di più, mi fa piacere. Allontano un po' dai miei pensieri il giovane biondo che è riuscito a scaldarmi il cuore con un paio di semplici e intuitivi gesti verso la sconosciuta che sono ancora per lui.

«È colpa dei miei, sono di nuovo apprensivi»

«Katy, non sento quasi niente di quello che dici. Sono felice che tu stia bene.»

Osservo il telefono tornato muto, dopo che mi ha salutato, ma non me la prendo. Non c'è motivo per cui anche lui deve rinunciare a divertirsi, solo perché io non posso essere al suo fianco. Appoggio di nuovo la testa sul cuscino cercando di riprendere sonno.

Progetto AlexanderDove le storie prendono vita. Scoprilo ora