Bianco e nero

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Ripreso il suo giro nelle vicinanze, Geto si ritrovò ben presto disorientato fra le stradine e gli edifici dell'immenso Istituto immerso nel verde

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Ripreso il suo giro nelle vicinanze, Geto si ritrovò ben presto disorientato fra le stradine e gli edifici dell'immenso Istituto immerso nel verde.
«Caspita, questo posto è davvero gigantesco».
Fatta eccezione per i templi buddisti, non gli era mai capitato di trovarsi in un complesso tanto enorme ed articolato.
Più che un istituto scolastico, aveva le fattezze di un vero e proprio villaggio, c'era persino un ospedale!
Guardandosi attorno tra le varie stradine, però, non poté evitare di chiedersi dove si fossero cacciati tutti quanti: erano già parecchi minuti che camminava a zonzo, ormai, eppure non aveva ancora incrociato un singolo studente.
Possibile che sarebbero arrivati tutti a ridosso dell'inizio delle lezioni?
O forse, pensò, i nuovi livelli speciali vengono inseriti prima?
Sì- e tutti gli altri?
«Ah, non ci capisco ancora un tubo di gerarchie jujutsu», sbuffò, calciando un sassolino lungo la strada sterrata. «Quel tipo però-».
Anche quel ragazzo dai capelli bianchi era un livello speciale come lui.

Il sole intanto aveva fatto in tempo ad abbassarsi fino a toccare la linea dell'orizzonte- e tuttavia Suguru aveva l'impressione di non aver visto che un'esigua parte dell'intero Istituto di Arti Occulte.
Facendo ritorno ai dormitori, il silenzio che lo accolse gli risuonò quanto di più lontano da quel che ci si sarebbe potuto aspettare in un ambiente frequentato da giovani della sua età.
Questo posto è proprio strano, constatò per l'ennesima volta da quando vi aveva messo piede.
Fu allora che, come non bastasse, il silenzio venne infranto da un suono intenso e vibrante.
Metallico e pieno, riempì l'aria e rimbalzò sulle pareti dell'edificio, raggiungendone ogni anfratto.
«Ma che?», si accigliò, scartando attorno lo sguardo con aria sempre più confusa.
«Ah, Geto... eccoti!», lo sorprese una voce familiare alle spalle.
Voltandosi, vide il professor Yaga sostare in fondo al corridoio principale.
«Che cos'era quel- gong?».
Quello? Il richiamo per la cena, ovvio.
«Fico», sogghignò il giovane. «Sembra di stare in un tempio buddista»
«È esattamente dove ti trovi», confermò l'insegnante e, sbirciandolo accigliato, si lasciò andare in un sospiro. «Hai parecchio da studiare, giovanotto. Non sai un bel niente del mondo a cui appartieni, a quanto sento».
Pungolato dalla ruvidezza di quell'appunto, Geto serrò le labbra e si adombrò: ne aveva forse qualche colpa? I suoi genitori non erano stregoni.
Lui stesso, fino ai sei anni, aveva vissuto alla stregua di un bambino qualunque.
Era stato con l'avvento del suo settimo compleanno che le sue abilità si erano manifestate, potenziandosi poi di anno in anno fino a raggiungere con l'adolescenza un livello tale da rendergli difficile il solo tenerle nascoste: da tre anni ormai Geto riusciva a scovare maledizioni in ogni dove, dalla più innocua alla più pericolosa.
Qualcuna era persino riuscito ad esorcizzarla col solo utilizzo della forza fisica.
Ma... assimilarla? Era quello il termine che aveva usato, no?
«Professore», esordì, continuando a camminargli accanto- quel pensiero non riusciva proprio a metterlo in sordina. «Quando ci siamo incontrati stamattina, lei mi ha detto che gli stregoni hanno il compito di esorcizzare le maledizioni»
«È corretto»
«Però... oggi col preside ha sostenuto che sono in possesso di un'abilità che mi permetterebbe di assimilarle»
«Corretto anche questo».
Geto non riuscì a trattenere un sorriso tanto confuso quanto sconcertato.
«Ammetto di saperne ancora ben poco, ma non dovrebbero essere due cose del tutto differenti? Esorcizzare e assimilare, intendo-»
«Sono diverse come il giorno e la notte, ragazzo».
Eh, appunto.
«Quindi- il mio compito quale sarebbe?»
«Esorcizzarle- o assimilarle. Imparerai a fare l'una e l'altra, non preoccuparti», rispose l'uomo, affiancandolo in strada. «Non avere fretta, Geto. Il tuo cammino sarà lungo e difficile. Forse persino più difficile di quello di molti altri».
Questo sì che è rincuorante, pensò il giovane, rallentando il passo sotto il peso di quel deprimente pronostico. E il professore, accorgendosene, lo squadrò accigliato.
«Be'? Cosa credevi?, che avrei suggerito di catalogarti come livello speciale perché potessi fartene un vanto?!»
«No, certo che no- qualsiasi cosa significhi»
«Gli stregoni di livello speciale sono definiti tali in quanto rarissimi, Geto».
«Saranno tanto rari, eppure uno di loro dorme nella stanza accanto alla mia-»
«Al momento oltre a te ce ne sono solo due in circolazione», ribatté Yaga.
«Cosa?! Solamente due?!»
«Sì- un moccioso viziato e una fannullona buona a nulla», commentò arcigno, aprendo il portone dell'edificio principale. «E il terzo sei tu, che non conosci la differenza tra un feticcio e un guscio maledetto... il ché suona proprio come una barzelletta», scosse il capo. «Eppure, fra i tre sei il meno peggio».
Il giovane chinò cupo lo sguardo, seguendolo lungo le scalinate che portavano alla mensa.
«Come ho detto, non avere fretta e impegnati giorno per giorno», gli ripeté l'insegnante, raggiunto l'ingresso del refettorio. «Si aspettano grandi cose da te, ai Piani Alti. E te l'assicuro», aggiunse, quando il giovane scivolò oltre la porta. «Quello è l'ultimo genere di responsabilità che si vorrebbe avere, nella propria vita. Anzi- ti è capitata forse la peggiore rogna che possa ricadere sulle spalle di uno stregone».
Ma questo qui dovrebbe essere un insegnante?!, pensò Geto, alzando allibito un sopracciglio. Più che esortarlo, stava riuscendo a farlo pentire di ogni singola scelta che lo aveva condotto fin lì.
«Buona serata», gli disse infine e, come niente fosse, se ne andò.
«Buona serata un corno», sospirò Geto, scivolando gli occhi sui pochi studenti già seduti ai tavoli. «Mi è passata la fantasia persino per mangiare», sussurrò poi tra sé e sé.
Liberato un profondo sospiro carico di amarezza, si diresse quindi verso il lungo bancone per servirsi la cena.
Fu allora che si accorse della sua presenza.
Seduto di spalle, il bianco dal carattere spinoso stava mangiando da solo e in silenzio, offrendo a Geto un'occasione irresistibile.
Potrei sedermi con lui, pensò.
Il tavolo poco più in là, cui sedevano gli altri sei ragazzi, non aveva più sedie disponibili, pertanto avrebbe potuto farla sembrare una scelta dettata dalle circostanze.
Insomma, chi non avrebbe apprezzato la compagnia di qualcuno a cena?
E tuttavia, non appena si mosse verso di lui col vassoio tra le mani, lo stregone dai capelli bianchi gli scoccò un'occhiata indecifrabile da sopra una spalla e si rialzò dalla sedia, portandosi via una mela.
«Uh».
Sbigottito da tanta manifesta diffidenza e asocialità, Geto scivolò gli occhi sul tavolo: non si era nemmeno premurato di riportare indietro il vassoio vuoto.
Però, che razza di modi.
«Ehi, livello speciale!».
Non poté proprio esimersi- e nell'intero refettorio quelle sole tre parole furono sufficienti a far calare il silenzio.
Il bianco, arrestato il passo a pochi metri dall'uscita, volse giusto il viso per sbirciarsi alle spalle con aria del tutto imperturbata.
Altrettanto impassibile, Geto gli indicò quindi con un cenno del capo il posto da cui si era appena alzato.
«Dubito che quelli si rimettano a posto da soli».
Il tavolo occupato si accese allora di un brusio sommesso e concitato: nessuno si sarebbe mai sognato di rivolgersi a lui in quel modo, per quanto fosse ancora un primino.
Ma a differenza loro, Geto ne era del tutto indifferente.
Anche quando lo vide tornare indietro sui suoi passi, lanciando un'occhiata gelida al resto dei compagni, non tradì la benché minima soggezione.
Fermatosi di fronte a lui, Geto si vide misurare dall'alto al basso per qualche istante: il suo atteggiamento non sembrava ostile, eppure poco a poco sul suo volto sbocciò un sorrisetto tanto arrogante quanto impertinente.
Il moro, dal canto suo, continuò a fissarlo immobile e con sguardo fermo, senza lasciarsi intimidire.
Fu allora che accadde qualcosa di sensazionale.
Inverosimile.
E semplicemente spettacolare.
Senza distogliere gli occhi dai suoi, il giovane dai capelli bianchi si sistemò gli occhiali da sole sul naso e sporse l'altra mano nel vuoto.
Tenue e azzurrognolo, un bagliore si irradiò quindi tra le sue dita lunghe e affusolate.
Geto si accigliò, voltandosi indietro con fare interdetto: sul tavolo a pochi passi da loro le vettovaglie avevano cominciato a tremolare e a tintinnare con forza, mano a mano che quel bagliore blu si faceva più intenso.
Per quanto fosse assurdo a vedersi, sotto ai suoi occhi attoniti l'intero vassoio prese allora a oscillare e a sollevarsi a mezz'aria.
L'inquietante quindicenne rigirò quindi la mano nel vuoto e, rovesciando il palmo verso l'alto, serrò le dita una dopo l'altra.
Bacchette, bicchiere e scodella si irrigidirono all'istante, compresse da una forza gravitazionale del tutto arbitraria che le immobilizzò sul vassoio.
Fluttuando in mezzo al nulla, questi solcò l'aria e il vuoto tagliando la stanza da una parete all'altra fino al bancone, dove infine, spentosi il bagliore attorno alla mano del ragazzo, andò a schiantarsi con un rumore assordante.
Esterrefatto, Suguru si voltò e scivolò di nuovo gli occhi sul viso del ragazzo.
«Qual è il tuo nome», gli chiese.
E quello, in tutta risposta, si infilò le mani nella tasca della felpa, indietreggiando di qualche passo con aria spavalda e appagata.
«Chiedilo ai tuoi amichetti laggiù».
Sbruffone dalla punta dei capelli bianchi alle suole delle Jordan che calzava ai piedi, gli volse quindi le spalle e, trasudando tutta la sua arroganza, si incamminò verso l'uscita della mensa.

Fu quella la prima volta in cui Satoru Gojo e Suguru Geto si rivolsero parola.

L'ultima Calda Primavera - SatoSugu PrequelDove le storie prendono vita. Scoprilo ora