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Un dolore al braccio mi fa trasalire, strizzo gli occhi, confusa. Agito senza forza il braccio ma il dolore non diminuisce e mi risveglia completamente dal mio sonno. Impreco, sentendo qualcosa di morbido urtarmi il naso.
<Rudolf!> muovo il braccio con forza, facendo si che il mio gatto cada dal letto.
<Bastardo!> sbotto mentre mi sistemo le coperte fino sopra la testa, ignorando il dolore al braccio. Mi avrà bucato con le sue zanne da animale feroce. Non mi capacito di come un gatto di appena quattro kili possa fare così male. Rudolf in risposta si lancia su di me, atterra perfettamente sulla mia schiena e io mi lascio scappare un verso di sdegno, per spaventarlo e allontanarlo dalla mia testa. Lo scaccio via e lui in risposta mi azzanna un piede.

<Ti odio!> irritata e completamente sveglia mi alzo in piedi e spalanco la porta della mia camera. Rudolf sfreccia via, miagolando vittorioso. Mi richiudo la porta dietro, infastidita e mi lancio sul letto con le braccia e le gambe spalancate. Sospiro, esasperata, e provo a riaddormentarmi nei minuti che precedono la sveglia, non  ho bisogno di guardare l'orario per sapere che mancano meno di dieci minuti. Il mio gatto mi sveglia tutti i giorni alla stessa ora, dopodiché scende al piano di sotto e si fa servire la colazione da mia madre.

Oggi è il primo giorno di scuola, il primo di altri trecentosessanta giorni in un inferno di cemento, dove le furie sono travestite da professori nati nel Paleolitico in giacca e cravatta e adolescenti in preda a crisi ormonali. Non ho nessuna voglia di ritornare a scuola e ricominciare la mia routine fatta di lezioni e studio, soprattutto considerando che per tutta l'estate ho ricevuto praticamente nessun messaggio dai miei amici, questo perché mia nonna ha insistito per portarmi a un ritiro spirituale di hippie in montagna dove l'età media era ottant'anni e il massimo del divertimento era giocare a bingo il giovedì pomeriggio. Non ho voglia di sentire le cose favolose e sicuramente divertenti che hanno fatto questa estate mentre io ero sperduta tra le montagne.

La sveglia suona e la stacco immediatamente, alzandomi in piedi. Mi avvicino alle finestre e le spalanco, lasciando che la penombra lasci il posto alla luce solare e mi accechi. Mi siedo sul divanetto posto sotto alla finestra, sperando che un po' di luce rimedi al mio colorito cadaverico e osservo pigramente la mia camera da letto. Le pareti sono blu scuro, affianco alla finestra ho una libreria color mogano; di fronte a me c'è la porta chiusa del bagno, affianco a essa l'armadio scorrevole, sulla parete sinistra la porta della mia stanza e la scrivania. Il letto a due piazze è incastrato contro l'angolo destro della stanza, dove il soffitto si piega trasversalmente. La mia camera da letto è nella mansarda della casa, non me ne lamento. È il mio rifugio, con tanto di bagno e mini frigo per tenere bibite e schifezze varie. Lancio uno sguardo al giardino sottostante sentendo Fulmine, il dobermann di mio fratello, abbaiare. Il cane scodinzola dietro mio padre che sta andando a lavoro. Mi nascondo dietro la tenda e lo osservo salire nella sua Mercedes, senza degnare di un cenno il cane e andare via. Mi alzo dalla mia postazione e mi dirigo verso il bagno per prepararmi. Ora, senza il rischio di incontrarlo, posso scendere giù.

Mio padre non è il migliore dei padri o dei mariti...o degli uomini; ma è un grande uomo d'affari e questo lo ha reso ricchissimo; ciò significa che anche io lo sono.

Spogliandomi, prima di entrare in doccia, osservo il mio corpo, i lividi sulle mie gambe e il segno dei denti di Rudolf sul gomito. C'è un limite a quello che i soldi possono comprare e se qualcuno non la pensa così è perché non sa cosa significa essere veramente ricchi, oppure, ha il quoziente intellettivo di una stella marina, e le stelle marine non hanno il cervello. Uscendo dalla doccia mi strofino un asciugamano sul corpo e mi spazzolo i capelli. Esco dal bagno nuda e avvicinando all'armadio mi vesto, indossando un paio di spesse calze nere sotto la gonna nera e la polo bianca della divisa.

Naturalmente, vado in una scuola privata. Mio padre per i suoi figli pretende il massimo, nello sport, nello studio, nelle amicizie e come figli. Sfortunatamente, sono riuscita a dargli ottimi risultati solo nello studio. Stacco il telefono dalla carica, mi infilo gli occhiali e, prendendo lo zaino, scendo in cucina. Attraverso il corridoio del secondo piano, dove ci sono le camere da letto dei miei genitori e dei miei fratelli. Odio l'ipocrisia di quella scuola e di questo ambiente del cazzo, solo perché hanno i soldi pensano di essere migliore degli altri. Sono diciassette anni che sono circondata da persone così, non c'è la faccio più. Non vedo l'ora di andarmene al college e tagliare tutti i ponti con le persone che conoscono.

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