1. Una giornata da brivido.

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Saranno stati due mesi dall'inizio del nuovo anno.

Ero ormai abituata all'esasperante attesa giornaliera per i mezzi pubblici, che avrebbero dovuto portarmi a casa, al termine di ogni giornata scolastica. Ricordo quell'odore nell'aria di quel pomeriggio appena iniziato: un misto di fumo, smog, vestiti antichi. Accanto a me, sotto la pensilina centrale della Stazione degli autobus, un signore anziano di media statura stava seduto pigramente su una panchina, con tutta l'aria di aver parecchio tempo da perdere. Subito notai quanto gelosamente teneva accanto a se' il suo bastone da passeggio, quasi come fosse il suo fedele cane da guardia, impreziosito da pietre incastonate in quel legno levigato e lavorato, probabilmente a mano, parecchi anni prima. L'aria gelida di quella giornata invernale era appiccicosa e umida: fastidiosa. Ogni profondo respiro faceva apparire ad ogni pendolare una soffice nube biancastra davanti al viso, solitamente pallido, tranne che per le guance, arrossate dal freddo. Al mio autobus era noto il suo solito ritardo, piuttosto forse, sarebbe stato sorprendente e fuori dal comune un arrivo di quel mezzo per l'orario stabilito, sul tabellone appeso al muro. Era la seconda volta che la mia playlist preferita ricominciava da capo, tramite le cuffiette a tutto volume del mio IPod. Tutto sembrava essersi fermato, le auto passavano di rado e il freddo aumentava, così finalmente decisi di intraprendere una parte del mio percorso a piedi. Piccoli fiocchi di neve avevano ricoperto già le strade, le auto posteggiate, gli alberi, i balconi delle case, quando assistetti all'arrivo di un pullman turistico, dal quale scendevano ragazzi e ragazze di ogni età: studenti ,probabilmente. Essi, stupiti dal freddo, si diressero verso i binari a passo veloce, portando con se' zaini, borse e valigie dai colori più vari. Tutti, meno che uno: un ragazzo alto e moro, magro, sui diciassette anni, dagli occhi chiari e l'espressione di chi, forse, non si aspetta nient'altro che non abbia già avuto dalla propria vita. Indossava una lunga sciarpa di lana bordeaux, con delle frange all'estremità e delle trecce decorative lungo tutta la sua lunghezza, un giubbotto nero con il cappuccio sollevato, dall'aria parecchio pesante, degli scarponi e dei jeans. Trascinava un' enorme valigia color ghiaccio, che si intonava perfettamente con il resto del paesaggio, ormai biancastro, in cui ci trovavamo. Il ragazzo avanzava frettolosamente verso la pensilina centrale, Lì dove incontrò l'uomo seduto sulla panchina. Egli si alzò molto lentamente, prese il suo bastone e reggendosi su esso, abbracciò il ragazzo dagli occhi chiari. Quest'ultimo ricambiò l'abbraccio, come se i due si conoscessero da parecchio tempo. Dopo, si diressero a piedi verso il lato opposto della stazione in cui mi trovavo io. Non so dire esattamente il perché io stessi ancora fissando quel ragazzo e quell'uomo, ma qualcosa mi colpì: forse, quell'affetto paterno a me poco familiare,o forse ero soltanto stanca di non osservare nulla di nuovo da parecchie ore. Avendo assistito a quella scena, decisi di proseguire per la mia strada, quando vidi sull'asfalto un piccolo pacchetto di metallo, nella traiettoria appena percorsa dal ragazzo dalla sciarpa bordeaux. Lo raccolsi e mi voltai di scatto, quando mi resi conto che i due erano ormai scomparsi. Così, infilai la scatoletta in tasca e mi diressi verso casa, con l'intenzione di aprirla una volta arrivata lì.

Vivevo con i miei genitori, mio zio e il gatto, che abbiamo chiamato espressamente "The Cat", dato che non amava molto l'idea di appartenere a qualcuno, diventando aggressivo e rumoroso, qualora qualcuno dicesse che era nostro. La mia non è mai stata esattamente una famiglia particolare, come si narra nei film. Non sono mai stata la ragazza "bella", di cui i poeti sono perdutamente innamorati e non sono mai stata l'eccezione descritta nei libri. Non sono quel genere di ragazza che fa zittire la gente quando passa, e non ho mai avuto un buon portamento o una pelle perfetta, non ho studiato francese o canto, non so suonare il piano. Non sono nemmeno la classica bellezza naturale anticonformista, cosa che i miei hanno sempre voluto che fossi.

Vi è mai capitato di sentirvi trasparenti in mezzo ad una folla, quando avreste voluto urlare: "Sono qui!"? Ecco, questo era più o meno ciò che provavo quando varcavo la soglia di casa.

Girai le chiavi nella toppa cercando di fare il più silenziosamente possibile, vista la tarda ora fattasi dal tragitto percorso a piedi. Una figura snella, chiaramente femminile, era seduta sulla "Poltrona del Malaugurio": una poltrona trasandata, di quelle ereditate da almeno sei generazioni, di nonne in nonne, che puzzano di polvere e che noi piazziamo davanti alla porta proprio per occasioni come queste. La donna in questione, ovviamente, era mia madre. È tutto il contrario di me. Se non fosse stato per i suoi occhi cerulei, quasi del tutto uguali ai miei, nessuno avrebbe mai potuto ritenerci madre e figlia. A dire il vero, neanche con mio padre vi è mai esistita una minima somiglianza, eccetto per i capelli. Ricci, neri, che ho sempre portato lunghissimi sin da piccina, quasi come se mi facessero da corazza verso lo sguardo scrutatore del mondo. Ed eccola lì, che mi fissava, con il suo solito sguardo severo, e la sua classica rughetta sulla fronte che era un po' come quei nuvoloni che anticipano la pioggia. Diciamo solo che quella fu una tempesta bella e buona.

*Autore*
Bene, questo è solo l'inizio della storia, come potete notare. Che cosa ci sarà nella scatola? In che modo il destino di Roheline può intrecciarsi con essa? Se apprezzate il mio modo di scrivere, continuate a seguire questa storia! Cercherò di pubblicare capitoli quando avrò tempo libero, ma intanto passate da ashadowlight  , il mio migliore amico, scrive benissimo!

Xoxo

#Roowolf

Non sono l'eccezione dei libri. {In Correzione}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora