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Nuova casa.

Nuova città.

Nuovo lavoro.

Nuova vita.

No?

Io spero proprio di lasciarmi tutto alle spalle e che il passato non venga a bussare mai più alla mia porta.

Sono alla fermata dell'autobus, che è particolarmente in ritardo. Sblocco il telefono e l'app mi dice che tra un minuto dovrebbe arrivare alla mia fermata. Nel frattempo mi maledico in silenzio perché odio guidare e di conseguenza la mia macchina è costantemente nel garage. Esce un paio di volte l'anno: per fare il tagliando e per fare benzina. Semplice e conciso.

I pensieri iniziano a regnare nella mia testa. Sono un po' agitata per l'inizio del nuovo lavoro... No, lo ammetto, sto per avere un infarto dall'ansia! Non è da me essere così pacata e tranquilla, io sono sempre e costantemente agitata per qualsiasi cosa. Un uragano insomma.

Un mucchio di domande infinite prendono vita nella mia testa. Se i colleghi non sono simpatici? Se non mi piace più lavorare in questo contesto? Ho fatto bene a lasciarmi tutto alle spalle? Tanti se e tanti ma, fino a quando non sento il motore dell'autobus fermarsi davanti a me. Alzo lo sguardo e vedo le porte aprirsi.

Faccio un respiro profondo e prendo posto vicino al finestrino. Il bello di quest'ora è che gli autobus non sono mai affollati. Che scema, ovvio, sono le sei meno dieci! Sono ancora tutti a letto!

In pochi minuti arriviamo a destinazione. L'autobus si ferma proprio venti metri prima della bottega nella quale inizio a lavorare. Da quanto sono sbadata, inciampo nei miei stessi piedi e quasi cado a terra. Per fortuna riesco a mantenere l'equilibrio e atterro a piedi uniti sulla striscia della strada. Sento lo sguardo dell'autista scrutarmi, probabilmente sta pensando che non ho molto la testa a posto (e come dargli torto).

Giro i tacchi e mi dirigo verso l'entrata dei dipendenti. Fuori trovo una donna, sui cinquant'anni circa, che mi saluta. Sta fumando sotto al portico prima di salire a cambiarsi.

«Ciao, io sono Cate. Tu sei Angel, la ragazza nuova nel nostro reparto?» Annuisco. «Finisco la sigaretta e andiamo su insieme, se ti va» aggiunge.

«Certo» rispondo.

In men che non si dica sono pronta, con la divisa che mi calza a pennello e iniziamo a lavorare.

Cominciano ad arrivare anche gli altri due colleghi e si presentano cordiali. Il primo è un ragazzo altissimo, probabilmente sfiora i due metri d'altezza. Sia gli occhi sia i capelli sono di un marrone molto scuro e il suo viso è caratterizzato da una barbetta e un paio di occhiali. «Kenton, molto piacere» si presenta, porgendomi la mano e io ricambio volentieri.

L'altro uomo, invece, lo vedo arrivare in lontananza con un passo deciso. A occhio e croce dovrebbe avere sui quarant'anni circa. Più si avvicina, più riesco a scrutarlo meglio. Rimango stupita perché non ha capelli, è completamente calvo sotto la cuffia che ha in testa. Indossa anche lui un paio di occhiali e solo quando me lo trovo a un paio di metri di distanza riesco a scoprire il colore dei suoi occhi, marrone.

Solo nel momento in cui alza lo sguardo su di me, mi rendo conto che mi sono fermata a fissarlo come una maniaca. Mi studia così attentamente che vorrei sotterrarmi. Sembra leggermi dentro al cuore con un solo sguardo. Devo ammettere che non ha davvero niente di attraente, solo lo sguardo ti cattura l'anima.

Mi passa affianco e balbetto qualcosa che sembrerebbe essere un ciao. Lui non contraccambia e nemmeno si presenta. Entra dentro in reparto e mi ignora completamente.

«Non ti preoccupare, Archie è uno di poche parole. Raramente parla durante il lavoro. Anche a me non ha salutato appena sono stato assunto. Sono passati otto anni e lui comunque non mi rivolge quasi mai la parola, nemmeno a Cate» mi dice Kenton prima di seguirlo.

Nel frattempo ritorno alla mia postazione con Cate e le faccio un paio di domande su Archie mentre finiamo di preparare le brioches farcite.

«Nessuno sa niente di lui qua dentro. Non si sa se ha una compagna, una famiglia, non si sa nemmeno di preciso quanti anni abbia...»

«Ma perché?» mi domando nella mia testa, ma solo dopo mi rendo conto di aver reso espliciti i miei pensieri.

«Credo che semplicemente non voglia mischiare vita privata e lavoro, poi chi lo sa...»

*

Dopo un paio d'ore dall'inizio del turno, iniziano a entrare i primi clienti. La maggior parte di loro è molto educata, altri un po' meno. Un paio di signori non hanno ricambiato il mio buongiorno e una signora mi è entrata subito in odio. «Ma questa chi è? È nuova?» domanda a Cate.

«Già, un nuovo acquisto!»

«Bè, io non voglio essere servita da lei, non mi sembra per niente competente» afferma la signora con modi particolarmente sgarbati.

Mi mordo la lingua e stringo a pugno le mani. Nonostante mi sia tagliata le unghie ieri, le sento attraverso i guanti perforarmi il palmo. Un piccolo bruciore si fa strada sotto il guanto in nitrile. Faccio di tutto per mantenere la calma e non farmi licenziare il primo giorno per una maleducata.

Quando ha finito di prendere le cose al nostro banco la saluto cordialmente, anche se dentro di me l'ho già maledetta almeno undici volte.

Dall'altra parte del reparto vedo Archie che sistema le fette di formaggio appena tagliate da Kenton sugli scaffali. Si piega leggermente con la schiena perché il punto è basso e noto che gli si abbassano un pochino i jeans, scoprendo il bordo dei boxer blu petrolio. Nel momento in cui si alza per tornare da Kenton, il suo sguardo viene fisso su di me. Probabilmente una persona qualunque lo distoglierebbe, ma io lo sostengo. Il tratto che deve fare è di un paio di metri quindi involontariamente mi passa a un metro di distanza ancora una volta. Mi squadra dalla testa ai piedi con una sola occhiata e io mi perdo in quello sguardo seducente.

«Come ti trovi?» Per la prima volta sento la sua voce. È particolarmente nasale e sorda.

«C-come?» balbetto.

«Ho chiesto come ti trovi qua» mi ripete sempre impassibile.

«Per il momento bene...»

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