Capitolo 2

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"Sei sicuro di aver preso tutto?" Gli chiese Porsche, urlando dall'altro lato della linea. Sembrava più impanicato lui del fratello, il quale doveva trovarsi al colloquio universitario in pochi minuti.

Porchay, che con una mano stava tenendo lo spazzolino e con l'altra il cellulare, rispose frettolosamente: "Per la millesima volta, sì. Ho preso tutto quello che potrebbe mai servire a un colloquio del genere". La sua voce era stanca, come se non avesse affatto dormito, cosa che, in effetti, era accaduta. Era rimasto sveglio per l'intera notte, con la perenne ansia di non riuscire a svegliarsi in tempo per l'appuntamento; ma non si trattava solo di quello. Più le ore passavano e più domande apparivano nella sua testa, una meno confortante dell'altra. Non aveva mai sentito prima d'ora un'università che ripescasse studenti nel bel mezzo dell'anno e, dopo aver fatto anche numerose ricerche, i suoi dubbi non facevano altro che ingigantirsi. Qualcosa non quadrava.

"Ma a te non sembra strano?" Domandò al fratello. Si era finito di preparare e si stava già avviando verso la porta dell'appartamento, il telefono poggiato tra l'orecchio e la spalla, mentre finiva di inserire le ultime cose nello zaino. Non sapeva neanche cosa gli avrebbero mai potuto chiedere, né se doveva portare la chitarra con sé. "Cosa?" Porsche aveva smesso di gridare e adesso il suo tono sembrava solo confuso. "Tutto questo, Hia. Il fatto che mi abbiano contattato così. Non è insolito?" Ci furono degli attimi di silenzio prima che Porsche si decidesse a rispondergli. "Non posso dire di averne mai sentito parlare prima. Però so che tu sei un ragazzo molto talentuoso e che, qualsiasi cosa sia, te la meriti. Non ci pensare troppo, va bene?"

Come se fosse così facile smettere di pensare e ripensare a come la situazione in cui si trovava sembrasse sempre più strana. "Okay, adesso ti lascio che devo andare". Prese le chiavi sul mobiletto vicino alla porta, questa volta si era ricordato di lasciarle al posto giusto, e si avviò verso l'uscita. Sentì suo fratello che gli augurava un ultimo 'buona fortuna' e lasciò che lo sguardo si soffermasse sulla vecchia chitarra poggiata vicino ai piedi del letto. Ci rifletté per un po' ma poi decise di lasciare stare e si diresse verso l'uscita del palazzo. L'ansia che lo stava ormai divorando.

Appena arrivò fuori l'edificio rimase sorpreso nel trovare solo quelle che sembravano meno di una decina di persone. Essendo domenica mattina l'università era chiusa e dunque a parte lui, e gli altri studenti contattati dalla scuola, nessun altro doveva trovarsi lì. Il cortile era silenzioso e un'aria pesante si formò attorno a Porchay. Quest'ultimo si guardò intorno, cercando di osservare il più discretamente possibile le persone di fianco a lui. Sembravano tutte calme, con pose composte, gambe accavallate una sull'altra o in piedi e appoggiati leggermente sul muro; apparivano tutti sicuri di loro, come se sapessero già i risultati del colloquio. Un ragazzo in particolare attirò la sua attenzione. Capelli castani, jeans strappati e un'espressione altezzosa. Scorreva con l'indice sullo schermo del telefono e di tanto in tanto lanciava delle occhiate verso Porchay. L'azione non passò inosservata al diretto interessato, che in tutta risposta lo squadrò da testa a piedi. Per qualche ragione gli pareva avesse un'aria familiare ma proprio non riusciva ad immaginare dove potesse averlo già visto. Non ricordava di averlo incontrato in officina e neanche durante il suo turno in pasticceria ma, con tutte le persone che vedeva ogni giorno, non poteva di certo aspettarsi di memorizzarle tutte. Il ragazzo, che ormai aveva notato Porchay, gli rivolse un sorrisetto furbo seguito da un occhiolino. Porchay distolse lo sguardo, sorpreso, ma non poté soffermarsi troppo a pensare all'accaduto dato che fu subito chiamato dalla segreteria. Una donna, dai capelli neri e corti, si affacciò con aria annoiata e chiamò il suo nome mentre, con la punta dell'indice, si sistemava gli occhiali sul ponte del naso.

"Porchay Pichaya Kittisawat? Entri pure, i professori la aspettano."

Porchay non sapeva cosa aspettarsi da quel colloquio ma, di certo, quello che non si sarebbe mai aspettato era una conversazione di massimo due minuti su cosa avesse mangiato a colazione. Era andata esattamente così: una volta che si fu seduto e presentato i professori lessero sottovoce un foglio di fronte a loro, scambiandosi delle insolite occhiatine – che Porchay non seppe interpretare, gli fu poi chiesto di confermare informazioni come il suo anno di nascita o l'attuale residenza e, infine, un insegnante di mezza età si schiarì la voce e gli chiese con fare serio cosa avesse consumato per colazione. Porchay, confuso, rispose onestamente ma non gli diedero neanche il tempo di finire la frase che uno di loro disse: "Perfetto. Può andare". Adesso lui, ancora con la bocca leggermente aperta e gli occhi spalancati, seduto su una delle sedie fuori al cortile, stava aspettando i suoi risultati, incredulo su quello che era appena successo.

It wasn't too late | kimchayDove le storie prendono vita. Scoprilo ora