Chan
Ho girato per tutta la notte per le strade della città, senza un metà precisa. Esattamente, come quando avevo 17 anni. Pensavo che i suoni di Seoul potessero distrarmi, ma è stato ancora peggio. Ho camminato con il telefono in mano, guardando e riguardando la foto di Deniz. Studiando ogni dettaglio, ogni piccolo particolare che potesse rassicurarmi sul fatto che stesse bene, che fosse felice. Più la guardavo e più sentivo la stretta intorno al mio petto stringersi, togliendomi il fiato. L'hai distrutta - mi dice la voce nella mia testa - stava bene prima di incontrarti. Si fa sempre più forte, diventa un rumore assordante che occupa tutta i miei pensieri. Guardo il suo viso scavato, la carnagione pallida, i suoi occhi spenti e l'unica cosa che riesco a pensare è che è colpa mia. Se la rivedessi, se ci riprovassi ... la distruggerei ancora di più. Ogni cosa che tocco, si distrugge. Torno a casa che è già sorto il sole. Jeongin è seduto al tavolo della cucina e alza lo sguardo appena varco la soglia di casa, togliendomi le scarpe. Deve avermi aspettato tutta la notte, ha delle occhiaie profonde e sbadiglia rumorosamente. –"Channie hyung, aspetta un attimo. Parliamo, non hai nemmeno cenato", ha la voce rauca come se si fosse appena svegliato. È quello più empatico di noi: se uno di noi sta male o sta passando un brutto periodo, lo vive sulla sua stessa pelle. È il più piccolo e vorrei tanto tranquillizzarlo, ma non ce la faccio più a mentire – quindi preferisco non dire nulla. Do un'occhiata al tavolo: ha cucinato per me e ha lasciato tutto lì per quando sarei tornato. Mi avvicino, scompigliandogli i capelli affettuosamente – è il massimo che riesco a offrigli. –"Scusa, non ho molta fame. Preferisco andare in camera mia" la voce mi esce in un sussurro quasi. Non mi fermo a guardarlo, so già che è dispiaciuto per me e che, probabilmente, ha gli occhi lucidi, perché lo sento tirare su col naso. Metto la mano sulla maniglia della porta di camera mia, ma sento che mi abbraccia da dietro, poggiando la testa sulla mia schiena. Gli stringo forte le mani come a dirgli che starò bene, ma non ci credo nemmeno io ormai. Mi scanso ed entro in camera: non voglio che mi veda piangere, lo distruggerebbe. Ho già fatto male a troppe persone. Mi accascio contro la porta e non so per quanto piango, guardando il quadro di Deniz appeso in camera mia. L'hai persa, l'hai persa per sempre – urla la vocina nella mia testa. Rimango fermo in quel modo per ore. Vedo la luce cambiare dalla mia finestra, finché il sole non tramonta e le luci della città si accendono. Perdo anche la forza di piangere da quanto mi sento sfinito. Sono così terribilmente stanco che non riuscirei mai ad alzarmi da qui, potrei restarci fino alla mia morte. Se non fosse per il campanello che suona. Provo ad aspettare ma non sento i passi di Jeongin fuori per andare ad aprire. Suonano ancora. –"Jeongin! Hai ancora ordinato da asporto? Vai!" gli urlo dal mio piccolo rifugio. Ti prego, non farmi alzare. –"Si! Ma non posso adesso, dovresti aprire tu" mi urla di rimando. Dovresti? Esco controvoglia dal mio letargo per vederlo sempre al tavolo davanti al computer che gioca a qualcosa. Lo guardo storto incamminandomi verso l'ingresso. –"Vedi tu se devo aprire io, quando sei già qui" borbotto ad alta voce, tra me e me, sperando che mi senta. Apro la porta, sentendo dietro di me Jeongin che si alza e si appoggia alla parete vicino all'ingresso per guardare meglio. Resto pietrificato a vederla, penso che sia solo frutto della mia immaginazione: volevo vederla così tanto che adesso ho anche le allucinazioni. Felix però, dietro di lei, la spinge in avanti e fa un cenno a Jeongin di uscire che avvicinandosi, saluta Deniz con un abbraccio ma lei sta guardando me, soltanto me. È reale. –"Vi lasciamo soli..." dice piano Jeongin, uscendo di casa e chiudendosi la porta alle sue spalle – ma non li sento, non appieno. Riesco solo a vedere Deniz, appoggiata alla porta di casa mia.
Deniz
Ho preso il primo volo disponibile per Seoul da Istanbul, passando tutto il tempo sull'aereo a far ballare le gambe dall'agitazione. È distrutto. Non ha mai amato nessuno, come ama te. Risento le parole di Felix nella testa per tutto il viaggio, ripetendo la telefonata mentalmente. Mi ha mandato l'indirizzo di dove farmi trovare per andare a casa sua: dobbiamo passare da un'entrata diversa per non farmi vedere, nel caso la stampa sorvegli i dormitori. È tutto così surreale: giorni fa ero a casa, a sentire la sua mancanza, convinta che non l'avrei mai più rivisto. Ora sono su un aereo verso casa sua, senza la minima idea di cosa aspettarmi. Scendendo dal taxi, Felix mi sta aspettando e mi abbraccia non appena mi vede. Nessuno di loro lo ha mai fatto. Saliamo le scale in silenzio e ogni scalino mi sento mancare sempre di più l'aria, finché una volta fermi davanti alla porta vado in preda al panico. –"E se si arrabbiasse? Se non volesse vedermi?" bisbiglio guardando la mano di Felix sul campanello pronto a suonare. Mi stringe forte la spalla. –"Fidati, sei l'unica persona che vuole vedere" e senza darmi il tempo di rispondere, suona. Sento la sua voce dall'altro lato della porta che urla qualcosa in coreano e il cuore mi si stringe. È dietro la porta. Apre con calma l'uscio e si blocca nel vedermi. È cambiato così tanto: ha lo sguardo di chi non dorme da giorni e l'aspetto di chi mangia ancora da meno. Gli occhi sono arrossati come se avesse pianto per una giornata intera. Non riesco a smettere di guardarlo, è come se fosse una proiezione e se lo toccassi potesse svanire, andare di nuovo via. Il tonfo della porta che si chiude alle mie spalle, ci riporta alla realtà e in un secondo mi ritrovo fra le sue braccia. Mi stringe così forte che potrebbe soffocarmi. Appoggia la testa sulla mia spalla e con voce tremante lo sento dire: sei qui, sei veramente qui – in continuazione, come se a ripeterlo potesse iniziare veramente a crederci. Si allontana leggermente da me per guardarmi meglio, analizzando con lo sguardo ogni mio tratto. –"Come hai fatto a ...", mi sposta i capelli dietro l'orecchio e il suo tocco mi manda ancora piccole scariche elettriche, come se il mio corpo non si fosse mai dimenticato di lui. –"Mi hanno chiamata i ragazzi, ieri sera. Sono preoccupati per te" gli rispondo dolcemente, ma il suo sguardo si incupisce per i pensieri che gli passano per la testa. Vorrei rimanere fra le sue braccia, fare finta di niente e andare avanti ma il pensiero di ciò che ho sofferto è troppo presente, troppo vivo. Mi scanso dalle sue braccia e mi avvicino al divano, guardandomi intorno. È un appartamento nuovo di pacca: uno di quelli che ti danno già ammobiliato; però noto qualcosa di suo come la scelta dei led colorati intorno alla televisione o i poster di band che non conosco. Mi siedo all'estrema destra del divano, mentre lui prende posto all'altra estremità lasciandomi il mio spazio. È così vicino, eppure è estremamente lontano, come se ci fosse un muro fra di noi di cose non dette, di dolore silenzioso. Ha smesso di guardarmi e gioca con l'anello al dito, ma non è il Chan timido e imbarazzato. È pensieroso: se mi avvicinassi potrei sentire le rotelle nella sua testa girare all'impazzata. –"Chan, parlami. Dì qualcosa..." bisbiglio dolcemente, cercando di raggiungerlo, di riportarlo da me. Se non lo guardassi, non mi accorgerei neanche della sua voce che gli esce in un sussurro smorzato. –"S-stai bene?" mi chiede continuando a fissare l'anello, come se avesse paura di affrontarmi. –"Potrei farti la stessa domanda", gli dico inclinando leggermente la testa per cercare di guardarlo in faccia. Rimane in silenzio. Mi sembra impossibile raggiungerlo e più il tempo passa, più sento ogni fibra del mio corpo tendersi. Dove sei finito? Mi avvicino piano verso di lui perché, se questa è l'ultima volta che lo vedo, non voglio stargli distante. –"Perché lo hai fatto?" gli chiedo, cercando di sembrare il meno accusatoria possibile ma è difficile. È come se mesi e mesi di dolore e pianti risalissero in superficie e prendessero il controllo. Vedo i muscoli della sua schiena contrarsi per un secondo, poi si appoggia all'indietro. –"Io... mi dispiace, pensavo che così avresti sofferto di meno. Pensavo di riuscire a portare via il dolore e viverlo per entrambi" dice, tenendo gli occhi chiusi. La voce gli trema ad ogni sillaba, come se facesse uno sforzo fisico a buttarle fuori. –"Chan, guardami", gira piano la testa per poi aprire gli occhi e posare lo sguardo su di me. I tuoi occhi non brillano più. –"Io non avevo bisogno di quello. Avevo bisogno che me ne parlassi. Se solo..." dico con calma, lentamente ma lui si alza in piedi, così velocemente, che faccio fatica a seguirlo con lo sguardo. –"Cosa? L'agenzia avrebbe cambiato idea? No. Non potevo farti ancora più male di quanto non abbia fatto. Deniz...Ti ho lasciata lì come la notte in cui...", la voce gli muore in gola quando vede la sofferenza nei miei occhi. Come la notte in cui sono morti i tuoi genitori. –"E invece portarsi addosso tutto questo dolore, è giusto?" gli chiedo dura, alzandomi in piedi per guardarlo in faccia. Non gli permetterò di chiudersi di nuovo, non ora che ha iniziato a parlare. Si passa una mano fra i capelli e, quando apre bocca, i suoi occhi sono ricolmi di una tristezza infinita. –"E' colpa mia, Deniz..."
-"No, non è vero" dico alzando la voce, non perché sia arrabbiata ma perché sembra che qualsiasi cosa io gli dica, lui non voglia ascoltarla. – "Non ti ho mai dato la colpa. Sono stata male per mesi, è vero, ma non ho mai pensato, nemmeno per un secondo, che fosse colpa tua" continuo avvicinandomi. Scuote piano la testa. Credimi, ti prego, credimi. –"Avrei solo voluto che...condividessi il dolore con me. Invece, più ti guardo e più non ti riconosco. Sei l'ombra del ragazzo di cui mi sono innamorata", sentirmi dire questo almeno lo colpisce un po' perché spalanca gli occhi. –"Deniz..." inizia, abbassando il tono di voce, ma non lo faccio finire. Non riesco a vederlo così, fa troppo male. –"Ho provato ad andare avanti, credimi. Mi sono riempita di lavoro fino a stremarmi pur di non pensarti. Sorridevo alle battute e alle persone intorno a me, solo per nascondere quanto stessi soffrendo. Ho provato di tutto ma non ci sono mai riuscita; quindi, ti supplico, ascoltami. Non è stata colpa tua e nonostante tutto, non mi sono mai pentita di essermi innamorata di te" – e di amarti ancora. Fa qualche passo verso di me, combattuto se raggiungermi oppure no. –"Non voglio farti soffrire ancora..." bisbiglia e tutta la tensione che sento sulle spalle, prende il sopravvento su di me. –"Cosa vuoi allora?" urlo. –"Vuoi continuare a distruggerti pur di proteggermi? Non la voglio la tua protezione, non ne ho mai avuto bisogno. Ma se è questo che vuoi, io non resterò a guardarti. Non ce la faccio", prendo la mia giacca abbandonata sul tavolo e corro verso la porta, lasciandolo lì a pensare. Devo uscire di qui. Abbasso la maniglia e apro la porta, ma lui la rispinge indietro tenendola chiusa. –"Fammi andare" dico piano. –"No, non voglio", lo sento dire alle mie spalle. Mi afferra il polso e mi gira verso di lui, per guardarlo ma è così vicino che sento tutto il calore del suo corpo su di me. –"Non voglio perderti, non più" dice e prima che possa replicare, le sue labbra sfiorano le mie. Mi bacia così lentamente da far male, come se stesse ricordando ogni singolo tratto delle mie labbra con le sue. Lascio andare la giacca per terra, per stringergli il colletto della maglietta, portandolo più vicino. Mi bacia delicatamente e io mi sento tremare contro di lui. Tutto il dolore, tutto ciò che ci siamo detti, sembra sparire. Dissolversi in mille pezzi. Neanche io voglio perderti. Poi Chan piega la testa, aumentando la pressione, baciandomi più a fondo. Di colpo, cambia tutto. Mi bacia con una fame e una crudezza che mi tolgono il fiato. Le sue mani mi cercano, incessanti, sotto la mia maglietta, sfiorando la pelle calda e il suo respiro diventa affannoso. Gemo piano contro le sue labbra e sento che si curvano in un sorriso. Vorrei tanto vederlo, vedere le sue fossette ma mi bacia sempre più a fondo, esplorando tutto di me. Le sue dita mi sfiorano piano la schiena, fino a raggiungere i miei fianchi, mentre la sua bocca abbandona le mie labbra per scendere sul collo, baciandolo e mordendolo senza tregua. Lo tiro ancora più vicino a me, muovendo le mani fra i suoi capelli, cercando di ridurre la distanza fra i nostri corpi. Le mie mani scendono fino all'orlo della sua maglietta, tracciando con le dita la linea degli addominali sotto il tessuto sentendo il calore della sue pelle sotto le mie mani, fino a sfilarla e lanciarla per terra. Senza staccare le labbra dal mio collo, mi solleva con un movimento fluido e le mie gambe si avvolgono attorno alla sua vita. Ridacchio contro l'incavo del suo collo, baciandolo ancora ancora e ancora, recuperando tutto il tempo perso, seguendo con le labbra la linea del collo, delle spalle, fino a ritornare sulle sue labbra. Gli mordo piano un labbro, facendolo gemere contro le mie per baciarmi sempre di più, fino a quando non credo di essere fuoco fra le sue braccia. Con passi lenti e decisi, mi porta verso la camera da letto che apre dando un piccolo calcio, senza mai staccare le sue labbra dalle mie come se la sua vita dipendesse da questo. Il letto era lì, ma noi eravamo già persi l'uno nell'altra.
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Le stelle che ci guardano / bangchan
FanfictionLa vita di Deniz è agli occhi di tutti perfetta: è una donna di successo; ha delle amiche splendide e una zia che sono la sua famiglia; ha un fidanzato che la ama. Nulla potrebbe distruggere la sua bolla di felicità. Almeno così pensava. Quando la t...