La Scelta Di Fuggire E Il Ritorno

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Era una sera come tante altre, ma dentro di me qualcosa era diverso. Non ce la facevo più. Ogni giorno che passavo a casa mi sentivo sempre più intrappolato, come se stessi lentamente perdendo me stesso. Le parole dei miei genitori, il loro disprezzo, le loro accuse, non riuscivano più a farmi sentire amato o rispettato. E così, mentre ero nel mio angolo, cercando di rimanere invisibile, una decisione prese forma dentro di me: dovevo andarmene.

Non sapevo bene cosa mi aspettava, ma ero certo di una cosa: non potevo più restare lì. Non volevo più subire la frustrazione e il disprezzo di chi non vedeva in me altro che un fallimento. Non volevo più vivere in una casa dove le uniche parole che sentivo erano rimproveri e critiche. Dovevo trovare un altro posto, un altro mondo, dove potessi essere me stesso, dove qualcuno mi avrebbe visto per quello che sono.

Decisi di lasciare un segno. Scrissi un biglietto semplice, ma che racchiudeva tutta la mia sofferenza. "Non ce la faccio più. Mi scuso, ma devo andare." Non avevo il coraggio di dire niente di più. Non c’era bisogno di giustificazioni, di spiegazioni che sapevo non sarebbero mai state comprese. Poi, senza pensarci troppo, posai il biglietto fuori dalla porta, proprio accanto al campanello, in modo che fosse il primo posto in cui lo avrebbero visto.

Suonai il campanello e, senza fermarmi nemmeno un secondo, scappai.

Corsa senza meta, senza una destinazione precisa, ma con un'unica speranza: liberarmi, almeno per una notte, da quella prigione. Non avevo idea di cosa sarebbe successo dopo, ma sentivo che dovevo farlo, dovevo scoprire se qualcuno si sarebbe preoccupato, se qualcuno si sarebbe mai accorto di quanto stavo soffrendo.

Passarono ore, ma non tornai. Mi rifugiai in un angolo della città, lontano dai miei pensieri, cercando di scacciare le preoccupazioni che mi assillavano. Era la sensazione di libertà che mi cullava, anche se sapevo che non sarebbe durata. Eppure, il fatto di non sentire il peso delle urla e delle critiche, anche per poco, mi dava una sensazione che non avevo mai provato.

Poi, la notte calò, e quando finalmente decisi di tornare, sentii il cuore battere più forte, quasi come se non volessi davvero vedere cosa mi aspettava. Ma non avevo scelta. Dovevo affrontare la realtà, anche se sapevo che sarebbe stata dolorosa.

Arrivai a casa e sentii subito che qualcosa era cambiato. La casa sembrava vuota, silenziosa, come se l’aria stessa fosse diversa. Quando entrai, lo vidi: mio padre, seduto sul divano, mi guardò con un’espressione che non riuscivo a decifrare. Non ci furono urla, né esplosioni di rabbia. Fu tutto più freddo, più distante. Come se la mia assenza non avesse fatto altro che evidenziare una verità che non avevo voluto vedere prima.

"Ah, ti sei deciso a tornare?" disse, con una risata che non sembrava una risata. Era più una beffa, una di quelle risate che fanno male. La sua voce era implacabile, quasi priva di emozioni, e mi colpì come un pugno allo stomaco. "Non hai trovato dove andare, eh?" aggiunse, come se stesse confermando che ero solo un ragazzo che non avrebbe mai potuto cambiare.

Non risposi. Non avevo le parole giuste per rispondere a quella domanda. Non c’era rabbia, non c’era nemmeno la delusione che mi aspettavo. C'era solo indifferenza, una di quelle cose che ti fanno sentire ancora più solo di quanto lo fossi già.

Mi sedetti in silenzio. La sua frase risuonava nella mia testa, ma non riuscivo a trovarne il senso. Non avevo capito se fosse un'accusa o solo una constatazione. Ma in quel momento capii che, nonostante fossi tornato, le cose non sarebbero mai cambiate. Il peso dell'indifferenza dei miei genitori era troppo grande, troppo opprimente. E, forse, se avessi avuto il coraggio di andarmene davvero, sarebbe stato meglio per me.

Restai lì, ma sentivo che, in qualche modo, ero già lontano.

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