La Reazione Di Mia Madre

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Il giorno dopo, tutto sembrava ancora più pesante. Avevo passato la notte in una sorta di limbo, tra il ritorno a casa e il ricordo di quella breve fuga che, purtroppo, non aveva cambiato nulla. La casa era rimasta la stessa, ma l'aria sembrava essere diversa, più pesante, come se il tempo si fosse fermato in attesa di una reazione. E quella reazione arrivò, ma non era quella che mi aspettavo.

Mia madre, come sempre, era pronta a prendersi il suo ruolo di "vittima". Quando la trovai, non c'era rabbia nei suoi occhi, non c'era nemmeno tristezza. C'era solo una forma di accusa, di incomprensione, come se fossi io il colpevole di tutto. Non appena mi vide, cominciò a parlare, a fare domande, a cercare di capire cosa mi fosse passato per la testa, ma non c'era spazio per le risposte. Le sue domande erano sempre le stesse: “Perché lo hai fatto? Cosa ti è successo? Perché non ci hai detto nulla?” Ma ogni domanda non era mai una ricerca di verità. Era solo un modo per mettere la colpa su di me.

"Perché non mi hai mai detto niente?" mi chiese, come se non sapesse che ogni volta che provavo a parlare con lei, non c’era mai spazio per un dialogo. Le risposte che le davo non le bastavano mai, perché non voleva ascoltare davvero. E così mi ritrovai a essere accusato di non essere stato abbastanza chiaro, abbastanza aperto, abbastanza onesto. La sua versione della storia era semplice: io ero il problema. Io ero il figlio che non sapeva come comportarsi, che non riusciva a rispettare le regole della casa, che non capiva le sue difficoltà.

"Se tu solo ascoltassi, se tu solo capissi, non sarebbe mai arrivato a questo punto," disse, con un tono che mi fece sentire come se fossi davvero io il colpevole, come se fossi io a non aver capito nulla della situazione. In quel momento capii che non c’era nessuna possibilità di un vero confronto, nessuna via di uscita da quella spirale di incomprensione. Era come se fosse impossibile vedere la realtà dal mio punto di vista.

Tutto ciò che diceva, alla fine, finiva per accusarmi, per farmi sentire che ero io quello sbagliato. Lei parlava di come stava soffrendo, di quanto fosse difficile per lei, di come fosse stata delusa da me, come se fosse la vittima di tutta la situazione. Ma dentro di me sapevo che non era così. Sapevo che, in fondo, non era la sua sofferenza a parlare, ma la sua paura di perdere il controllo. Non mi stava chiedendo di cambiare, ma stava cercando di giustificare tutto ciò che aveva fatto, di farsi passare per la vittima di una storia che non aveva mai voluto ascoltare.

Era inutile parlare. Ogni tentativo di fare un ragionamento, di spiegare le mie ragioni, di dire che mi sentivo soffocato, che avevo bisogno di essere libero, veniva subito interrotto. Lei non voleva sentire nulla di tutto ciò. La sua mente era già chiusa, il suo giudizio già formato. Il suo ruolo di madre che si preoccupava era solo una facciata, un modo per non affrontare la verità.

Ogni parola che usciva dalla sua bocca sembrava solo un’altra accusa, un’altra presa di distanza. Era come se fossi io il cattivo, e lei l'unica vittima di tutta la storia. Non importava che io avessi sofferto, che avessi cercato di farcela da solo, che avessi bisogno di essere ascoltato. La sua verità era quella, e io non potevo farci niente.

Mi sentivo come se stessi parlando a un muro, come se la sua percezione della realtà fosse così distante dalla mia che ogni tentativo di comunicare diventava una battaglia persa. Non c’era spazio per il dialogo, solo per la recriminazione. E così, dopo ore di interrogatori e risposte inutili, rimasi in silenzio, pensando che, forse, quella fosse la vera prigione: una vita in cui nessuno ti ascolta mai veramente, e dove tutto ciò che fai è sempre e solo sbagliato.

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