18. Journey through time

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Aiden

Erano passati cinque anni, ma il tempo non aveva cancellato i nostri ricordi. Mi bastava chiudere gli occhi per rivederla seduta in un angolino, con le gambe strette al petto e la testa rivolta verso l'esterno. In mezzo a tutto quel caos, io riuscivo solo a udire il suo silenzio. Avevo diciassette anni allora, lei un anno meno di me. Eravamo il giorno e la notte, il rumore e il silenzio; eppure, ci eravamo incastrati perfettamente come due pezzi dello stesso puzzle. I nostri sentimenti erano muti, ma io potevo sentirli. Li percepivo ogni volta che mi permetteva di sedermi accanto a lei o quando si voltava a cercarmi nei corridoi di quella clinica, che un tempo era stata un po' anche la mia casa.

Sophie era reale, così come lo era stata l'amicizia speciale, che ci aveva legati per quei brevi, ma intensi mesi. Lei era il buio e io quello spiraglio di luce, che si concedeva prima di tornare a nascondersi tra le nuvole di quel passato mai svelato.

Ci avevo provato. Avevo tentato di oltrepassare quella paura che le faceva nascondere il viso tra le mani ogni volta che provavo a scoprire qualcosa sulla sua infanzia;  avevo provato a farle capire che di me poteva fidarsi, che l'avrei aiutata a coltivare i suoi silenzi per farli fiorire e diventare parole. Ci avevo provato con tutto me stesso, eppure non era stato abbastanza.

«Credo che dovresti licenziarti.»

Le parole di Riggs, farcite con una preoccupazione fraterna, interruppero quel viaggio nei ricordi.

«Cosa?» Chiesi, rivolgendogli un'occhiataccia, dopo essere tornato alla realtà.

«Ho sempre avuto dei dubbi sul tuo nuovo lavoro, ma dopo questo...» disse sventolando in aria il biglietto da visita di Aroon Castillo. «Beh, sono fermamente convinto che dovresti parlare con tua madre e convincerla a darti un'altra possibilità. Ci sono tanti pub a Londra che stanno cercando personale...»

Ci avevo pensato tantissime volte da quando avevo deciso di accettare la proposta di lavoro da parte di Harris. Non mi sentivo a mio agio tra le mura della Bucolic Clinic e non ero abituato a scendere a patti con nessuno, eppure con quello psichiatra l'avevo fatto.

«Non devi utilizzare questo numero per forza.» Tornò a parlare, spezzando per l'ennesima volta il flusso dei miei pensieri.

«Non ho detto che lo farò.» Mi limitai a rispondergli con aria indifferente.

«No, ma sei il mio migliore amico e ti conosco. Sei rimasto tutto il giorno a casa, chiuso nella tua camera a scervellarti su Dio sa cosa. La questione ti tocca e ho paura che...»

«Non c'è nessuna questione.»

«Allora perchè non hai ancora strappato quel biglietto?»

Alzai gli occhi al cielo e mi scostai le coperte dalle gambe.

«Cristo, ma tu non dovevi allenarti oggi?» Protestai, alzandomi dal letto e recuperando una sigaretta dai jeans adagiati su una sedia.

Aprii la finestra, provando a ignorare i movimenti alle mie spalle.

«Avevo un'ora di tempo prima di recarmi al campo. Volevo solo vedere come stavi, brontolone.»

Mi voltai e lo accompagnai con lo sguardo fino alla porta.

«Fatti un favore e butta via quel cartoncino.» Mi rivolse un sorriso, poi uscì dalla porta, lasciandomi da solo a girovagare in quella stanza.

Presi il contatto di Aroon e lo fissai per qualche secondo, stringendolo nervosamente tra indice e pollice. Tornai così a ventiquattrore prima, in quel maledetto capanno insieme ad Evelyn e il mio corpo reagì di nuovo al pensiero delle sue labbra così vicine alle mie.

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