17. It's All Your Fault

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Aiden

«É colpa tua.» Continuo a seguire la voce, ma essa sembra allontanarsi a ogni mio passo. «Guarda cosa hai fatto.» Corro più veloce, mi fanno male la gambe, ma non posso permettergli di sparire di nuovo. Non so da quanto sto correndo, ma sembra tutto inutile. Ritorno sempre al solito punto e le mie mani sono di nuovo sporche di fango. Mi fermo un attimo per riprendere fiato e abbasso lo sguardo sulla mia immagine riflessa sulla piccola pozzanghera formatasi sul terreno. «Non dovevi farlo.» Le gocce continuano a cadere dalle rocce sopra la mia testa e un fascio di luce cade sull'acqua ristagnata. C'è una via d'uscita, eppure non riesco ad abbandonare questo luogo. «Aiden, devi tornare indietro.» L'eco del mio nome, seguito da quell'ordine mi porta a rialzare lo sguardo. Vorrei urlare, ma dalle mie labbra non esce alcun suono, non riesco a parlare. Torno al punto di partenza, ai piedi di quella parete rocciosa dove adesso è incisa una nuova frase: "hai le mani sporche di sangue".

Mi svegliai di colpo e di riflesso guardai le mie mani. L'incubo era stato così reale, che per un momento temetti di vederle macchiate di rosso. Tirai un sospiro di sollievo quando notai l'assenza di ferite e le nocche ancora intatte. Mi sedetti, storcendo di riflesso il naso in seguito a una forte fitta alle tempie. Erano ormai mesi che non dormivo bene, l'insonnia era tornata, così come l'emicrania.

«Aiden, sei ancora a letto?»

Guardai l'ora sul telefono e scoprii di essere in ritardo, terribilmente in ritardo. Recuperai velocemente una pasticca di ibuprofene dal cassetto e la mandai giù con un sorso d'acqua.

«Stai bene?»

La porta si aprì senza preavviso e la chioma in perfetto ordine di mia madre, fece capolino da dietro lo stipite.

«Chi ti ha dato il permesso di entrare?» Contestai, dirigendomi verso l'armadio per recuperare un cambio. A ogni passo, seguiva una fitta più forte.

«Hai di nuovo il mal di testa?»

«Sto bene.» La redarguì, acciuffando un asciugamano pulito e incamminandomi verso il bagno. «Non ho dormito bene stanotte.»

«Hai bevuto ieri sera?»

Ed eccola lì, la domanda tanto attesa. Scossi la testa rassegnato e portai il panno sulla spalla, sfilandole davanti con indifferenza.

«Ti ho sentito urlare stanotte.»

Lo immaginavo, ma non avevo intenzione di esporle il contenuto dei miei sogni o a rivelarle che purtroppo erano diventati sempre più frequenti nell'ultimo periodo.

«A te non capita mai di avere degli incubi?» Domandai sprezzante.

«Continuavi a urlare: "non è stata colpa mia".»

«Senti Sigmund Freud, se hai voglia di psicanalizzare il subconscio di qualcuno, venti ragazzini ti aspettano alla clinica. A proposito, perchè non sei al lavoro?»

Erano da poco passate le nove e la sua presenza era alquanto inusuale. Mia madre era ossessionata dalla puntualità, tanto da accertarsi ogni sera di non aver disattivato per sbaglio le dieci sveglie impostate a distanza di due minuti l'una dall'altra.

«Avevo dimenticato la valigetta a casa.» Spiegò con tono assertivo. «E tu non rispondevi al telefono, come sempre.»

«Non ho sentito la sveglia.» Mi giustificai atono, smuovendo una mano in aria, per incitarla ad andarsene e permettermi di prepararmi.

«Vuoi venire con me? Se non ti senti bene, posso aspettarti.»

«No, voglio solo  farmi una doccia e mettere fine a questo supplizio.»

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