EVELYN
L'assenza di qualsiasi emozione rappresentava un distacco temporaneo dalle ferite dell'anima. E forse era proprio per questo che avevo rifiutato le cure dopo la morte di mia madre. Le sedute con la psicologa Williams, nel suo piccolo studio a Portland, erano riuscite ad accarezzare i miei demoni senza riuscire però ad afferrarli completamente. Loro scappavano, ma io rimanevo ferma, impaurita da quella guerra che non sentivo di poter vincere. Più parlavo, più mi sentivo vuota. Più mi sentivo vuota e più mi auto convincevo di non poter superare il lutto. Dopo appena un mese, smisi di vedere la giovane donna, per recarmi nello studio di un uomo sulla sessantina con i capelli brizzolati, la folta barba bianca e due occhi piccoli, ma profondi. Sapevo benissimo che la mia malattia era peggiorata, sapevo che parlare cercando di arrivare al subconscio non era più sufficiente. Nonostante i ricordi ricorrenti dell'incidente, non riuscivo a provare niente e per un po' di tempo riuscii a mascherare quella condizione, sentendomi finalmente in pace. Alzarsi la mattina mi era difficile, così come farmi una doccia o mangiare. Il mio corpo sembrava essere diventato un tutt'uno con il materasso e i miei occhi anime gemelle del soffitto della mia piccola cameretta.
"Purtroppo la depressione di sua figlia ha raggiunto un livello troppo grande per escludere una terapia a base di anti depressivi. La sua condizione al momento non le permette di svolgere le normali attività quotidiane, per lei anche solo mettere i piedi sul pavimento e abbandonare il suo letto rappresenta una sfida troppo grande. Questa profondo senso di vuoto, soprattutto negli adolescenti e chi ha subito un trauma così importante, può portare anche al suicidio."
Mio padre era rabbrividito al suono di quell'ultima parola. L'avevo spiato dalle scale, ascoltando attentamente ogni minima parola. Entrambi erano preoccupati, ma io non sentivo niente, se non il distacco emotivo e fisico da tutto ciò che mi circondava.
"Queste non sono la chiave Evelyn, ma la tua mente ha bisogno di un aiuto adesso, perché non può farcela da sola. Solo tu puoi sconfiggere i tuoi demoni e superare il lutto che vi ha colpiti così all'improvviso, ma in questo momento è come se stessi combattendo contro un esercito armato. Ci sei solo tu di fronte a quelle centinaia e centinaia di persone e non hai alcuna arma tra le mani, se non il tuo cuore. Hai bisogno di forze per tornare a vivere e la lucidità necessaria per comprendere che esiste ancora un futuro."
Gli scatti di rabbia erano una conseguenza del distacco emotivo che avevo provato. Lo conoscevo bene, lo sentivo bene. Ero conscia del caos che abitava dentro la mia testa, ero capace di sentire il cuore battere nel petto, ero in grado di percepire il respiro pesante quando l'ennesimo attacco di panico sopraggiungeva, togliendomi quel briciolo di razionalità che mi era rimasta. Non volevo nessuno accanto, non desideravo parlare con nessuno, tantomeno con chi in fondo non mi aveva mai compresa del tutto e allo stesso tempo non aveva mai avuto modo di scoprire le mie infinite fragilità.
Ebbi il mio primo attacco di panico all'età di dodici anni per uno stupido litigio con un'amica. Mia madre mi aveva calmata, aveva provato in tutti i modi a farmi pensare ad altro e solo quando avevo raggiunto di nuovo la consapevolezza che non sarei morta, mi aveva spiegato dell'esistenza dell'ansia. Durante quel periodo mio padre non era presente.
Passarono pochi mesi e l'ansia peggiorò, costringendomi molte volte a saltare la scuola per la paura che si era instaurata dentro la mia testa del mondo che mi circondava.Capitava spesso che mi sentissi vuota, altri in cui mi sentissi normale. Mai realmente felice. Più crescevo e più sentivo di perdere la luce che avevo sempre avuto negli occhi. Quando caddi a terra per l'ennesima volta tra i corridoi della mia scuola, mio padre non era presente.
Quando varcai per la prima volta la porta di uno psicologo avevo tredici anni. E fu allora che fu messa in dubbio la mia sanità mentale. La definirono "tendenza depressiva". Quell'espressione mi spaventò a morte e per i successivi anni cercai di combattere contro le montagne russe che vivevo periodicamente, considerando i periodi buoni e quello meno buoni come una parte di me. Ero difettosa, ma al tempo stesso speciale. Soffrivo, ma non mi interessava, perché chiunque avesse creato il mondo aveva deciso questo per me e me lo sarei fatto andare bene.
Quando cercai di accettare la mia condizione mio padre non era presente.

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Feelings Hunt
FantasyA Portland, in una sera di fine maggio, Evelyn raggiunge il limite. Ha solo diciassette anni, ma dentro di sé custodisce un buio troppo profondo per la sua età. In preda alla disperazione, tenta il suicidio nel silenzio della sua cameretta. Il gesto...