CAPITOLO V - ATTRAZIONE FISICA- L'EVOLUZIONE

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CAPITOLO V

ATTRAZIONE FISICA, L'EVOLUZIONE

Dopo aver discusso con Harry per almeno mezz'ora, dato che il signorino non aveva intenzione di rivestirsi solo per pigrizia, riuscimmo ad uscire di casa, chiuderla a chiave, attraversare la strada e bussare a casa sua.
Era ormai mezzanotte e io iniziavo ad accusare la stanchezza.
Appena arrivati Gemma ci squadrò da capo a piedi, poi disse qualcosa di offensivo a Harry e sul suo abbigliamento, beccandosi un bel "vaffanculo" a caratteri cubitali, e alla fine a me rivolse un gran bel sorriso.
Era simpatica Gemma, ma non per questo non sapeva farsi rispettare. Porca vacca! Lavorava in banca! Un luogo pieno zeppo di uomini! La ragazza aveva le palle!
Appena mi vide Anne mi sorrise, notai che era già in pigiama. Mi sentii un po' d'intralcio là dentro, ma comunque non scappai via urlando (come avrei voluto fare), rimasi lì ad aspettare che mi assegnassero una stanza, come in collegio...
In quella casa non c'erano molti bagni, ma c'erano molte stanze, anche perché, in qualche modo, doveva essere giustificata la grandezza della casa che al di fuori appariva come un mausoleo.
Comunque, ero ormai in camera, la camera degli ospiti, che Gemma si affrettò a sistemare mettendo delle lenzuola pulite e accendendo una lampada su un comodino.
Ero al piano terra, perciò sopra di me avevo le camere di Harry e di Gemma, che ancora era sveglia a camminare senza sosta facendo un baccano assurdo, rovinandomi il sonno.
Che giornata tremenda. Non pensavo mai potesse finire in quel modo. E anche se dicevo che non m'importava, tenni il telefono acceso e vicino a me, per ogni evenienza.
Quando Gemma smise di fare la maratoneta professionista, ritentai di afferrare il sonno perduto e rilassarmi in mezzo a quelle coperte profumate di pulito, e i cuscini di piuma.
Tutta la notte la passai in dormi-veglia, aspettando una chiamata di Kevin o di mamma o di chiunque altro che mi aggiornasse, ma niente. Il telefono sembrava morto, tranne quando lo sbloccavo e controllavo se mi arrivavano messaggi, ma niente.
Non sapevo se prendere per buono che nessuno mi chiamasse o prenderlo come una brutta cosa. Molte volte ero sul punto di chiamare qualcuno della mia famiglia, ma niente, non ce la facevo proprio. Ero arrabbiata con mamma e Kevin.
Poi mi rassegnai, e alle sei della mattina mi addormentai.
«Lea....Svegliati....Devi andare in ospedale»
Una voce mi richiamò. Non volevo svegliarmi e vedermi a due centimetri di distanza un viso che non ero abituata a vedere di prima mattina, perciò mi presi del tempo, assaporando quel momento breve di rilassamento.
La voce era di una donna, che fosse Gemma? O Anne? Era uguale, non mi sarei svegliata facilmente con nessuna delle due.
«Lea, si vede che sei sveglia. Avanti, che ti accompagno io all'ospedale...» era Gemma, Anne non mi avrebbe parlato in quel modo.
«Sai qualcosa di quello che succede in ospedale?» le domandai con gli occhi chiusi.
«Perché? Dovrei saperlo, per caso?» sentivo che era seduta al mio fianco, sul letto matrimoniale, e poggiava il corpo su un braccio che passava sopra di me e si fermava al lato della vita.
«Che ne so, pensavo che ti avessero avvisata....Almeno te» aprii lentamente gli occhi, aspettandomi una luce fortissima, ma quello che mi accolse al risveglio fu una lieve luce che attraversava le persiane semi chiuse.
«No, non mi hanno detto niente...Adesso veloce a cambiarti, così partiamo e andiamo dai tuoi» si alzò dal letto, fece per andare alla porta ma la bloccai con le parole.
«Ma come? Partiamo subito?» ero seduta sul letto, a cercare di riacquistare quel minimo di equilibrio andato perduto durante il fallito tentativo di alzarmi dal letto con una mossa scattante.
«Certo! Devo essere a lavoro alle nove! Sono le sette, e per arrivare all'ospedale ci vogliono almeno venti minuti, solo andata! Adesso veloce! Ti aspetto in sala...» uscì e mi lasciò sola.
Scattai in piedi. M'incamminai verso la sedia dove avevo poggiato i jeans e la maglietta grigia con il cappotto.
Avevo dormito con solo gli slip e la canottiera, non avevo voglia di fare una valigia per una sola notte.
Quando fui pronta uscii di lì e raggiunsi Gemma. In casa regnava il silenzio. Probabilmente Anne e Des erano a lavoro, e Harry era a prepararsi per andare a lezione, se non era ancora partito.
Gemma distolse l'attenzione dal giornale che stava sfogliando senza pensarci e mi guardò, connesse alcuni neuroni e scattò in piedi, con in mano già le chiavi della sua macchina.

«Grazie Gemma» scesi dall'auto.
«E di che? Ah! Mi raccomando per domani! Ci vediamo a casa mia alle dieci e andiamo a prenderci un caffè!» mi urlò per farsi sentire, dato che ero già scesa e stavo per chiudere la portiera della sua BMW nera.
Annuii e chiusi la portiera lasciando libera Gemma di partire e andare a lavoro.
Non ci feci caso subito, ma aveva dei calzoni palazzo neri, e una giacca slim con collo sciallato, nera anch'essa, che arrivava appena oltre il bacino fasciandole quel fondoschiena che effettivamente non aveva nulla di male.
Era elegantissima in quel suo completo e metteva paura forse.
Presi un gran bel respiro, mi strinsi nel mio cappotto e mi girai trovandomi davanti l'edificio più odiato al mondo, sia dai non malati, che dai malati!
Era sempre pieno di gente all'entrata e non ci si raccapezzava nulla, infermiere a destra e a manca, dottori che correvano verso cardiochirurgia e reparti simili.
Volevo fare il medico, ma non in ospedale, anche se la specializzazione dovevo farla lì. Magari c'avrei fatto l'abitudine, ma in quel momento sopportare la gente che ti sbatacchiava ovunque era veramente difficile.
Allungai la gamba e cominciai a camminare verso l'accoglienza.
«Mi scusi....Sono venuta per Meredith Port, ieri sera è stata operata per...» mi bloccò alzando il dito indice, mentre con la mano libera digitava qualcosa sul computer.
«Terapia intensiva. Piano dieci» rispose infine.
La guardai ancora un po' stranita, ma poi mi decisi a camminare verso l'ascensore e percorrere dieci piani in mezzo a barelle e medici con camici sporchi e non.
Il viaggio in ascensore fu veramente faticoso, la maggior parte del tempo ero stata spiaccicata alle pareti a causa di carrozzelle triple o barelle con incubatrici e cose varie. Ma la cosa buffa era che IO ero sbagliata lì dentro!
Quell'ascensore veniva utilizzato per lo più dai dottori e dai pazienti, io che non ero ancora un dottore, e per fortuna, nemmeno un paziente, dovevo andarmene, per quel motivo mi feci un piano a piedi, dato che un dottore fresco di doccia e di un buon riposo si accorse di me e mi fece scendere senza tanti problemi.
Quando arrivai la piano di terapia intensiva, mi fermai subito. Il corridoio era pieno di miei parenti, chi seduto e chi in piedi. Tutti erano lì per la nonna, erano rimasti svegli per tutta la notte, stando su quelle sedie scomode per tutte quelle ore, mentre io, che mi lamentavo mentalmente per le poche ore di sonno che avevo avuto, mi sentivo tremendamente fuori luogo e anche cattiva.
Presi un respiro, inalando l'odore tipico dell'ospedale, che non sai mai se è pulito o sporco, allungai di nuovo la gamba e marciai dritta verso gli altri, che ancora non si erano accorti di me.
Strano che li facevano stare tutti lì, pensai.
«Lea!» Kevin scattò in piedi venendomi incontro.
Quando mi raggiunse a metà strada mi strinse e iniziò a piangere pesantemente sulla mia spalla. Guardai la mamma senza capire, era triste e anche lei stava piangendo. Pregai che la nonna non fosse morta mentre ero a dormire nel letto più comodo del mondo.
«E' morta....» un dottore uscì da una porta e si rivolse a mia zia, la madre di Kevin.
Della serie: tiè! Becchete questo, stronza!
No, non poteva essere morta. Merda! A sentire quelle parole Kevin mi strinse ancora di più a lui e continuò a piangere.
La testa mi girava, non capivo più nulla, ero in confusione.
«Kevin, non mi sento bene...» mi staccai da lui avvertendolo.
«PORTATE UNA BACINELLA!» urlò mio cugino già pronto a tenermi i capelli.
Poco prima di dare di stomaco, mi ritrovai davanti una bacinella di un tremendo colore, che non fece altro che aumentare i miei conati di vomito.
Kevin, da buon cugino, mi tenne la fronte e i capelli, mentre mi liberavo.
Le gambe non mi reggevano più, dovevo sedermi, al più presto.
Non sentivo nemmeno più le loro voci. Li vedevo soltanto, lì, tutti intorno a me. Che vergogna, pensai. Un'infermiera portò via la bacinella dopo avermi dato un fazzoletto, che usai.
Kevin mi portò fino alla sedia più vicina a noi, e lì mi sedetti, mentre mia madre mi parlava, ma io non la sentivo.
Sì, ero un po' sotto shock, ma nulla di grave.
Poi la vidi alzarsi e andare da un dottore a caso, prenderlo per il bavero e portarlo da me. Stava piangendo ancora di più.
Ci mancavo solo io, pensai di nuovo.
«...ea....Lea, mi senti?....Lea...» il dottore mi parlò, ma molto più tardi avvertii quello che mi stava dicendo
Annuii lentamente. Kevin tirò un sospiro di sollievo e la mamma scoppiò in lacrime, venendomi ad abbracciare forte.
Lì non ressi più. Scoppiai in un pianto straziante. Abbracciata a mia madre che mi teneva sempre di più stretta a se, come se potessi scappare via.

Tornati a casa gli zii rimasero da noi, a bere qualcosa di più forte del tè, mentre noi ragazzi eravamo, come al solito, in camera mia. Ma non stavamo giocando, stavamo solo zitti, ad ascoltare le voci lontane dei grandi in sala, seduti sui divani a discutere su come dividersi i soldi e i compiti per il funerale della nonna.
Io mi ero stesa sul letto, dopo essermi lavata i denti, mi sentivo molto bene, da un punto di vista, ma emotivamente ero rotta nel profondo.
Kevin non parlava quasi mai, era sempre abbracciato da Susan, che piangeva a sua volta. Troy, se ne stava da una parte, da solo, seduto a terra, rannicchiato in un angolo remoto della stanza, Matty era al mio fianco, sdraiato come me e fissare un po' il soffitto e un po' gli altri. Jenny era la psicologa del momento, osservava ogni minimo movimento ed espressione. Non le sfuggiva nulla.
Volevo Harry, lo volevo vicino, a consolarmi con uno sguardo anche, mi sarebbe bastato lo stesso. Volevo solo essere un po' consolata, da quella morte improvvisa. Ma non sapevo come rintracciarlo, non avevo il suo numero e non potevo uscire di casa e andare da lui! Lui per me non era niente, mentre quelli che erano lì intorno a me erano la mia famiglia.
Sentii dei passi salire le scale, per poi fermarsi in camera mia.
«Lea, è Harry, vuole parlarti» mi avvisò la mamma.
Con molta fatica mi alzai e abbandonai quel posto per raggiungere la porta di casa e, magari, buttarmi fra le braccia del ragazzo.
Quel giorno i miei pensieri anticipavano quello che sarebbe accaduto. Prima la morte di mia nonna e poi l'arrivo di Harry. Iniziavo seriamente a preoccuparmi!
Quando finii le scale e andai verso la porta, mio padre mi fermò.
«E' in cucina. Ti sta aspettando...» era anche lui distrutto, per lui la madre di sua moglie era stata come una seconda madre e ne soffriva molto, glielo leggevo negli occhi.
Annuii silenziosamente e mi diressi verso la cucina. Scorsi un ginocchio fasciato da dei jeans neri e poi una massa riccia che si girò verso di me e si alzò.
Mi fermai a metà strada, era ormai in piedi difronte a me e io ero difronte a lui, impacciata, e insicura. Avevo voglia di toccarlo, abbracciarlo, stringerlo a me e magari farmi coccolare da lui, ma non potevo, almeno in quel momento dovevo contenermi.
«Scusa se sono venuto, ma hai lasciato a casa mia un braccialetto...» me lo porse e io lo afferrai, avvicinandomi ancora un po' di più a lui.
Quel braccialetto non lo indossavo quasi mai, se lo mettevo era nelle tasche dei jeans, e probabilmente la sera prima, mentre mi cambiavo, mi era scivolato via.
Gli sorrisi debolmente, con lo sguardo basso. Non volevo far vedere gli occhi rossi.
«Mi dispiace per tua nonna....Tua madre me lo ha detto» chiarì dopo aver visto la mia espressione interrogativa.
«Ahh... »
«Sei hai bisogno di qualcosa, qualunque cosa, non farti scrupoli a chiamarmi» si offrì «Penso che sia necessario che ti dia il mio numero di telefono...» sorrise appena, mentre sfilava dalle tasche dei jeans il cellulare e lo sbloccava.
Come sempre non avevo il telefono a portata di mano, così gli proposi di farmi uno squillo, al numero che gli diedi, e gli assicurai che avrei salvato il numero e lo avrei chiamato appena ne sentivo il bisogno.
«Bene...Credo che me ne debba andare....Ci vediamo, Lea» si avvicinò a me per uscire e mi sfiorò appena la mano.
«Harry» appena sentii la mia voce chiamare il suo nome, chiusi gli occhi pentendomi di aver parlato a vanvera.
«Sì...?» si fermò.
A quel punto dovetti girarmi e affrontarlo, chiedendogli già un favore.
«No....niente...» mi rassegnai.
«Sicura?» si avvicinò appena un po'.
Annuii, a quel punto mi scrutò appena e poi se ne andò uscendo di casa.
Vigliacca.

-Spazio a me-

Lea è un pò una caca sotto O.O

Ovviamente la nonna è morta...Povera Lea...Se lo sentiva :/
Non temete, le parti drammatiche sono veramente scarse, se non quasi inesistenti ;)
Spero sia di vostro gradimento ^-^
Alla prossima :)

Baci Xx  

PS: Se vi va mettete una stellina, mi farebbe molto piacere :)


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