Punti di vista

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Gli anni trascorrevano così, senza curarsi dell'esistenza del tempo. Sembrava che fuori continuasse a piovere e che facesse troppo caldo per starsene dentro. Anni dettati da una condizione mentale miserabile, instabile, ma non del tipo "follia omicida", quanto piuttosto di progressiva sfiducia in se stessi e nel mondo. Sfiducia che lenta ma inesorabile s'impadroniva di me.
Quei posti bui della mente ancora inesplorati adesso s'illuminavano d'insensatezze, d'incongruenze, d'inesattezze terribili e incompatibili con la visione che avevo del mondo e della vita.
I castelli di carta cadevano dilaniati dal vento implacabile.
Non mi mancava niente,
ma anche tutto.
Non è semplice da spiegare, tanto meno da rivivere.
Quel che succede lo si comprende dopo un'eternità...e delle volte l'eternità non basta.
Ero al mondo ma non avevo un ruolo in esso e tendenzialmente non me ne fregava un cazzo di trovarmene uno. Ero un parassita. Un disadattato. Non capivo la moda, mi annoiava la politica, non interpretavo la Pop Art, non guardavo la TV, odiavo ballare,
non stavo nei parchi con gli skaters o nei viottoli con gli Street Dancer, non salutavo "Ciao Bro!",
non spendevo centonavanta euro per un paio di scarpe.
Quel che volevo era un posto dove far passare il tempo.
Ammazzarmi con gusto.
Qualcosa da bere.
Un pó di erba buona.
Un paio di libri vivi dentro...di quelli che ti dispiace chiuderli per studiare altro, o buttare via il tempo lavorando.
Essenzialmente mi accontentavo di poco. Preferivo le case piccole, le auto a diesel e Ligabue a Vasco; non leggevo Fabio Volo, o Coelho, o Dan Brown, o S.King, o W. Smith, o Moccia, o che cazzo ne só, autori tipo Zafòn. Non per male, ma solo perché mi sentivo troppo in colpa con me stesso a starmene lì a leggere puttanate piuttosto di un Bukowski, un Hemingway, un Dos Passos, un Burroughs, un Lawrence, un Dostoevskij, un J.Fante. Quando riuscivo a mettere qualche soldo da parte passavo in via Pò e trattavo con i venditori di libri usati. Tutti i libri di questi autori venivano svenduti per qualche strana ragione. Si vede che agli italiani piace altro, l'insulso, e a me stava bene così; a noi tutti, che sapevamo, andava bene così. La bella prosa è terreno difficile da trovare e mantener sano, e l'ultima cosa di cui ha bisogno è gente incapace di comprenderla.
Si tenessero pure i maghi, i vampiri ciucciasangue e le troie ciucciacazzi, quel che cerco non mi può essere dato da J.K. Rowling...
Quel che cerco è un tipo diverso di magia. Viscerale. Vera. Che faccia esplorare prospettive inimmaginabili pochi secondi prima di voltar pagina. Un teletrasporto mentale istantaneo. Sensazioni, odori, paure, ansie, frustrazioni, eccitazioni, visioni dell'attimo e del secondo in ogni parola. Come in un viaggio oltremare sull'oceano nero.
Prima naufrago fra le onde,
poi capitano di vascello,
e alla fine cadavere in balia delle onde.
Nulla ha più importanza.
Il luogo, le cose, le persone, sono solo parole che vivono.
Ogni lettera, ogni frase  mi catapultava sempre più lontano dalla giusta strada e nel mentre osservavo le altre anime proseguire pie il proprio cammino. Tranquille. Sicure. Come i più forti degli dei.
Anime cieche, sorde e mute,
in fila una ad una,
ad aspettare le parole del messia.

Quando cercavo il silenzio mi rifugiavo in biblioteca.
Allora chiudevo gli occhi.
Sognavo la schiena di mio nonno china sulle piante di pomodoro,
il sole dell'isola,
il mare,
le strade del borgo,
le tende sulle spiaggie...
riprovavo una sensazione pura e casta, simile a quella che tanto si odiava da bambini. La sentivo impossessarsi di me; poi sorridevo, solo, fra le pile di libri e l'odore di carta antica.
Quanto può essere ingenua la pretesa di speranza. Così splendidamente estranea alle congetture dell'universo.

Le notti fissavo le stelle fumando una siga e fingevo di saper amare. Essere senz'anima, senza dio, senza fede, che guarda il cielo...come un'assassino guarda i parenti delle vittime da dietro le sbarre di un'aula di tribunale.
Cosa ci facevo lì? Come una macchia scura su lenzuola bianche; una nota stonata fra le melodie jazz di un povero negro per ricchi bianchi.
La gente non se lo spiegava.
Io non me lo spiegavo.
Ma andava bene così.
Andava bene lo stesso.
Loro mi odiavano.
Io li odiavo.
Il nostro era un rapporto paritario biunivoco. Nessun est ovest sud o nord...
loro da una parte, io dall'altra. Nessun contrasto, nessun teatrino da cortile.
Ci limitammo ad osservarci, scarnirci e,
forse,
giudicarci.

Fine dei giochi.

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