Con la mal(ben)edizione di Dos Passos

237 6 3
                                    

Avevo un amico una volta che di nome faceva Enry. Viveva in un quartiere tranquillo di zona Vanchiglia, a pochi passi dal centro.
In casa sua, attaccata al muro del corridoio, giaceva una libreria traboccante di libri. Libri di tutti i generi.
Belli e brutti, come ogni cosa in questo mondo. I più erano quelli brutti però. C'erano tutti, immancabile bruttezza della vita che rende bello tutto il resto; da Agatha Christie a Zafón, passando per Fabio Volo e Nick Hornby (i suoi ultimi), da Stephen King a W. Smith. Ma ogni tanto, fra i vari Montalbán, Cooper o Follett...inquadravo dei nomi interessanti. C'erano alcuni Hemingway sparsi qua e là, divisi, qualche Bukowski, qualche Tolstoj, qualche raccolta di poesie di
Fitzgerald e, o tutt'al più J. Prévert.
Posso giurare d'aver anche visto un Dos Passos una volta. L'Introvabile John Dos Passos. Il giorno che glielo chiesi in prestito Enry acconsentì ma il libro era sparito e non si trovò.
Lui diceva di non conoscerlo questo Dos Passos, di non averlo mai letto, mai sentito. Diceva d'essermi sbagliato,
di non pensarci.
Ma non potevo non pensarci.
Dos Passos era la chiave, lo sapevo.
Lo intuivo. Lui era la chiave. Doveva essere mio. Ma non avevo soldi, non lavoravo e non pagavo l'affitto da due mesi. In frigo avevo tre bottiglie di birra da sessanstasei, due uova e un pezzo di burro. Pensai d'andare a cercarmi un lavoro ma non avevo né la voglia né la concentrazione giusta per farcela.
Forse mi si leggeva in faccia che ero inaffidabile. La vita è questione di pazienza o di apparenza e io non possedevo nessuna delle due cose.
Allora mi ricordai della tessera bibliotecaria che avevo nel portafogli. Mi ricordai anche dei due grammi d'erba che mi aveva lasciato Enry e che portavo nella tasca del giubbotto.
Era quello il mio posto, la biblioteca. Dove potevi essere quel che volevi e nessuno ti vedeva, nessuno parlava, nessuno era nessuno. Il silenzio.
Presi una birra e la bevvi.
Infilai le altre due in uno zaino.
Trovai delle cartine sul tavolo.
Aprì la porta e uscì.

Le biblioteche di Torino erano tante e sparse per tutta la città. Quella che preferivo si trovava in via Bava, vicino al centro. Appena all'entrata, dietro una scrivania dell'Ikea grigio-verde simile a quelle degli ospedali, sedeva un ciccione barbuto dalle sembianze barbariche.
Il suo lavoro consisteva nel porgere un pezzo di carta plastificata a chiunque volesse varcare la soglia.
Basta.
Tutto qui.
Questo era il suo lavoro.
Tu entravi, se andava bene ti salutava, ti dava il suo bel pezzo di carta identificativo e tornava con gli occhi sullo schermo del PC.
Non l'ho mai visto prendere un libro in mano. Era un guardiano del sapere che non sapeva; avesse potuto cagare e pisciare da quella sedia lo avrebbe fatto.

Non ricordo di quale dipartimento facesse parte la biblioteca, probabilmente della facoltà di Lettere, so solo che vi era un giardino interno niente male, i caffè costavano pochi centesimi e l'atmosfera era simile a quella di un santuario. L'odore dei libri posti negli scaffali di legno era inebriante come l'incenso dentro le chiese. Mi diressi subito in giardino. Aprì una birra e rollai una canna. L'accesi. Davanti a me due matricole mi guardarono stupite.
Non se l'aspettavano un intruso nel loro posticino immacolato, dove passavano la vita a leggere delle vite degli altri.
Pensai d'urlargli qualcosa ma l'erba iniziava a salirmi, piacevole, sensuale. Si mischiava all'alcol nello stomaco e finiva col darmi una sensazione di pace mistica.
Fumavo gangia per farmi piacere la gente mentre molti lo facevano per farsi piacere dalla gente.
Non lo volevo come vizio. Bastavano quelli che avevo. Ma notai che fumare mi faceva stare meno male. Riequilibrava il mio appetito, sparivano gli spasmi alla schiena, oltre a farmi raggiungere una concentrazione inusuale e profonda. Percepivo sfumature apparentemente invisibili nelle parole, nelle cose, nelle persone.
Insomma, pochi effetti collaterali e molti vantaggi. Perché fosse ancora illegale non lo comprendevo. L'unica spiegazione valida era quella complottistica: le lobby del tabacco, della sanità, dell'abbigliamento, dei trasporti, della carta, del petrolio, sapevano; conoscevano l'infinito potere della pianta e volevano privarcene.
Era solo questione di cash!
Inoltre nessuno mi toglieva dalla testa che sotto sotto i politici italiani lucrassero sull'illegalizzazione, non so in che modo, in uno dei tanti, probabilmente, ma lo facevano.
Finita la birra decisi di dare un senso alla giornata e d'andare in cerca di quello per cui ero andato.
Salì al primo piano, imboccai la prima uscita a destra delle scale ed entrai in sala studio, anch'essa adornata da file di scaffali numerati disposti su colonne parallele. Mi misi a cercare gli autori la quale cognome iniziava per "D" ma non vi era l'ombra di Dos Passos. Cercai e cercai e quando fui quasi arrivato alla fine dello scaffale andai a sbattere contro la sagoma di una tipa che passava tutta spigliata. La botta le fece perdere la presa sui libri che portava in mano e questi caddero atterra rovinosamente. Un tonfo sordo si propagò nell'aria. Gli studenti si destarono dal sonno e ci fissarono male, come fanno le mamme coi figli quando rincasano tardi e con le scarpe nuove impoverate.
Ci fissarono senza dir niente,
senza muoversi
e mi diedero l'impressione d'essere tanti manichini di pezza colorata.
Poi lo notai.
Lì atterra.
Il libro.
La chiave.
La musa dalle curve argentee.
Feci per prenderlo ma la ragazza mi anticipò. Allora la guardai in faccia e scorsi qualcosa di familiare in lei ed ella mi guardò e penso dovette scorgere qualcosa di simile.
Ci salutammo a voce bassa.
Nella memoria avevo sepolto il suo nome ma lesta la polvere s'era alzata coi venti di maggio e il ricordo mi era nitido adesso,
sicché gielo sussurrai,《ciao Monica》.

Diario Di Uno StronzoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora