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«Dottoressa, abbiamo bisogno di lei nella stanza 347», mi dice una voce dolce. È una ragazza molto capace che aspetta solo di esporre la sua tesi di specializzazione per essere a tutti gli effetti un medico, e sono felice e onorata di poterle insegnare il lavoro sul campo, nonostante anch'io sia piuttosto giovane e abbia finito i miei studi solo un paio di anni fa.

«Arrivo subito, Linda.» Mi dirigo verso quella stanza e a quanto posso notare, il nostro anziano paziente si è finalmente svegliato, e sebbene speri che lui non abbia bisogno di ulteriore tempo qui in ospedale, so che mi mancherà. Ho questo brutto vizio di affezionarmi ai pazienti e ogni volta che se ne tornano a casa sono un po' triste. Anche se la felicità causata dalla consapevolezza di aver fatto un buon lavoro è di gran lunga più grande.

«Buonasera, io sono la dottoressa Jones. Sa come si chiama?», chiedo, dando il via alla serie di domande di routine per vedere se la sua memoria è stata in qualche modo intaccata. Per fortuna non è così, e nonostante la stanchezza riesce a rispondere a tutte le domande. La famiglia ne sarà felice, penso, ma poi ricordo che l'unico membro della famiglia rimasto in vita è un cugino che però ha dichiarato apertamente che non gli importa nulla della sorte dell'anziano. Lo ha completamente abbandonato a se stesso. La moglie e la figlia, invece, da quanto ho potuto leggere nella cartella personale del paziente, sono decedute anni fa a causa di un incidente stradale.

Molto spesso capitano casi del genere, e farei di tutto pur di cambiare le cose, ma mi rendo conto che nulla può portarti indietro la famiglia.

Svolgo gli ultimi test sul signore, dicendogli che se non ci sarà alcuna complicazione potrà tornare a casa anche tra un paio di giorni. Mi sorride felice, anche se è la prima volta che mi vede, e i suoi occhi lucidi mi scaldano il cuore. Sono così fortunata a fare questo lavoro e a poter vivere queste emozioni. Do di matto quando vedo medici lamentarsi dei pazienti o degli orari difficili, come se per loro venire ogni giorno in ospedale fosse un tremendo sacrificio, mentre per me è come andare in un oasi ristoratrice, nonostante -lo ammetto- la frenesia e la fretta che bisogna avere nello svolgere ognuno i propri compiti. Io, se potessi, ci vivrei in quest'ospedale...

Esco dalla stanza e mi dirigo nel mio ufficio. Aziono la macchinetta del caffè e ne gusto un po', cercando di svegliarmi. Il turno è quasi finito e la stanchezza inizia a farsi sentire, ma conoscendomi riuscirei a fare anche gli straordinari senza dormire. Molto spesso i miei colleghi mi prendono in giro per la passione che ci metto nel mio lavoro, e non ho ancora capito se ad avere una visione distorta della realtà sono loro oppure io. È così strano vedere un medico motivato e pieno d'amore e affetto nei confronti dei pazienti, in mezzo a tutta questa folla? Probabilmente sono io quella sbagliata, chi lo sa.

Controllo altri tre pazienti, tra cui un bambino del quale mi sono già innamorata. Ha appena sei anni ed è in coma da due mesi. Ha i capelli biondi e morbidi, e sarei curiosa di vedere il colore di quegli occhietti, anche se so di essere azzurri, me lo ha detto la sua mamma. Lei è una donna molto presente, non si scoraggia e continua a sperare, e questo è sicuramente l'atteggiamento giusto. Viene qui ogni mattino alle 8, per andarsene poi a notte inoltrata. Il padre si vede più di raro, ma lui lavora fuori città quindi è comprensibile, credo. Anche se io mi comporterei proprio come la mamma.
Si vede che è una donna forte, ma ammetto di averla dovuto consolare un paio di volte a causa di una forte crisi di pianto. L'ho abbracciata come se fosse stata mia sorella, siccome abbiamo quasi la stessa età, e mi ha ringraziato per tutto quello che stavo facendo per suo figlio. In realtà, quello che facciamo noi dottori in questi casi è quasi inutile. Controlliamo i parametri vitali per vedere se ci sono anomalie, ma il duro lavoro lo fanno proprio i pazienti, che si trovano a lottare ogni giorno tra la vita e la morte, tra la luce e il buio.

«Parlagli», dico per l'ennesima volta alla mamma, credendo fermamente che loro possano sentirci e che sia un modo per farli ritornare.

Lei annuisce e inizia a raccontargli la sua giornata. Saluto per un'ultima volta il bimbo, con la speranza, come sempre, che domani si svegli. La madre ha sofferto fin troppo.

The Cure || Justin Bieber (#Wattys2016)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora