XXVII

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Continuo ad aspettare, eppure ancora nessuno si è fatto vivo. So il perchè, alla fine io stessa mi trovo costantemente dall'altro lato, con una marea di scartoffie da firmare e valori da controllare prima di poter parlare alle famiglie, ma questo non mi consola per niente. Non quando so che a causa mia sta rivivendo quello che lo ha intrappolato per settimane nel buio, se non peggio.
Il peso sul petto non accenna ad alleggerirsi, opprimente. Inspira, espira, trattieni le lacrime, asciugati quella sfuggita alla palpebra chiusa. Ripeti.
Davanti a me passa la solita infermiera. È forse la terza volta che la vedo camminare avanti e indietro. Ogni volta non ha nuove notizie per me, per cui ora evito di chiedere dal principio. Prima o poi dovrá arrivare qualcuno, mi convinco. E, cosa piu importante, porterá buone notizie. Magari Justin è gia sveglio. Magari sará lui stesso a raggiungermi, ragiono con quel poco di senno rimasto, realizzando più tardi la stupiditá del pensiero. Il fatto è che nel silenzio la voce diventa più forte, dirige, emerge su tutto, diventa impossibile non ascoltarla, anche quando inizia a dire stronzate.
Strofino le mani con forza sul viso, sono sfinita. Sono stanca psicologicamente, più che fisicamente, cosi poggio la testa sulle mani a coppa, rette dai gomiti posizionati sulle ginocchia, per cercare almeno un minimo di sollievo.

«Bieber?»
Di colpo il mal di testa mi abbandona, e il mio corpo reagisce a quell'unica parola con un aumento esponenziale del battito cardiaco. Mi alzo di scatto, incontrando gli occhi di una donna dal viso ornato da un paio di occhiali dalla forma singolare. Ha in mano una cartelletta, sulla quale legge qualcosa subito dopo aver notato una risposta al suo richiamo.
«È un familiare? La moglie?», chiede nel frattempo. Scuoto la testa, torturandomi le mani.
«E chi è lei?», alza un sopracciglio scuro, portandosi la cartelletta al petto. Dimmi come sta e facciamola finita.
«Una... una sua amica.»
Annuisce. «Mi dispiace signorina, ma per la privacy non mi è permesso di...»
«So come funzionano queste cose», la interrompo, «sono anch'io un medico. Però purtroppo sono l'unica sua conoscenza da queste parti. Noi siamo di Stratford, piuttosto lontano da qui...»
La donna mi guarda, cercando di capire se sia disposta o meno a fare uno strappo alla regola. Poi sospira.
«Va bene, ma diremo che lei è un familiare», afferma. Annuisco di rimando, ringraziandola.
«Allora, il paziente è svenuto, ha sbattuto la testa e per questo va tenuto sotto osservazione, però sta bene, non sembra nulla di grave. Abbiamo fatto i vari accertamenti, e i lividi sul petto...» si ferma un attimo. «I lividi sul petto sono superficiali, i colpi per fortuna non hanno provocato lesioni agli organi. Ora sta riposando, se vuole può entrare ma non deve farlo stancare, intesi?»
«Certamente», annuisco un paio di volte, cercando di tenere a freno il sorriso. Justin sta bene.
Piega un po' la testa a mo' di saluto, e mi indica la sua stanza. Percorro il corridoio mantenendo un passo calmo e controllato, ma a dirla tutta non so se sia riuscita nell'intento. Quando leggo quei tre numeri sulla porta, sorrido, le lacrime stanno per ritornare ma devo trattenerle.
Lo spazio è piccolo, la finestra permette al sole di metà giornata di irradiare la stanza, mentre io ho solo occhi per lui, avvolto tra le coperte. Ha gli occhi chiusi e qualche escoriazione sul viso, ma nulla che possa renderlo meno affascinante. Sta dormendo. Ha la fronte aggrottata, ci passo il pollice sopra per farlo rilassare. Prendo posto sulla sedia accanto al letto, e mi perdo ad osservarlo. Questa volta ho avuto seriamente paura. Non si trattava più di me, ma di lui, e non è qualcosa che posso permettere. Allaccio la mia mano alla sua, voglio sentire tutto il suo calore e maledirmi per essere stata troppo egoista. Volevo a tutti i costi che questa cosa tra di noi - non so nemmeno cosa sia - non finisse, e ho rischiato di mettere a repentaglio la sua vita. O forse l'ho fatto già. Lui non merita casini, i miei casini. Lui merita una vita spensierata. Lui merita di meglio, ma io non riesco a lasciarlo. In tutta questa merda so che lui potrebbe essere l'unica fonte di felicità, e dopo tutto questo tempo passato a cercarla... non ho il coraggio di lasciarla andare.
Muovo il pollice sulla sua mano calda, così da creare piccoli cerchi, e respiro. D'un tratto mi è venuto sonno, non so perché. Forse sono influenzata dalla tranquillità apparente del momento, dal silenzio dell'ospedale interrotto solo dal leggero bip della macchina, dalla luce del sole. Fatto sta che gli occhi si chiudono da soli, e cado in un sonno profondo.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jun 30, 2017 ⏰

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