Capitolo V

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Le foglie danzavano nell'aria. Doveva essere autunno; Nathair non ne era certo. E come esserlo? Di fuori, il vento faceva piroettare i lasciti delle piante morenti, così come al suo interno la consapevolezza di essere su un altro pianeta agitava con la sua potenza minatoria ogni passata sicurezza. Quanta chiarezza e nel contempo quanto mistero. L'immagine riflessa nel vetro, di quel ragazzo dai capelli castani e gli occhi verde acqua, era veramente il suo volto o era la maschera di un commediante? Aveva ventuno anni; ne sentiva il peso di centinaia. Era lì da due giorni; ne sentiva il peso di centinaia, se non di migliaia. Seduto sul letto, con lo sguardo che si stava sedimentando sulla natura, Nathair respirava. E questo era un buon segno. Voleva dire che era vivo. Che non era morto. Ma dopotutto come avrebbe potuto saperlo, se fosse stato morto? L'unica cosa che poteva fare era continuare a vivere e vedere ciò che ne veniva fuori. Poi avrebbe giudicato se si fosse potuta chiamare vita quello che avrebbe passato.

«Ancora lì?» disse Cardmis, aprendo la porta cigolante della camera che aveva assegnato a Nathair. «Sono due giorni che guardi la finestra. Scendi solo per mangiare. Ancora non hai realizzato che siamo su un altro mondo?»

Nathair si passò una mano fra i capelli. «E come potrei non aver realizzato?» rispose; uno strano animale simile a una volpe sbucò da un albero e scomparve dietro una roccia. «Mi sembra giusto un po' ovvio che non siamo sulla Terra. Cioè... hai visto quella roba che è successa quando sono arrivato qua?»

Ci furono attimi silenti.

«Sì» si limitò a dire Cardmis; il tono che virava alla preoccupazione. «L'ho vista eccome.»

Nathair si girò. L'omone era appoggiato allo stipite e aveva il volto incupito; le braccia incrociate, la sottile maglia che metteva in mostra l'opera di muscoli.

«Cioè, bello, sono io che dovrei essere preoccupato e - ma anche o - spaventato a morte; non tu.»

«Non sono io quello che sta a guardare la finestra da due giorni» controbatté Cardmis.

Nathair sollevò le mani. «Ok, mi hai scoperto. Ma ti posso assicurare che sono meno preoccupato, almeno nei riguardi di ciò che ho lasciato sulla Terra, di quanto immagini.»

Cardmis lo fissò perplesso. «Cos'è quella cosa che hai fatto con le braccia poco fa?» gli chiese dapprima. «E poi... cosa intendi?»

Nathair lo guardò senza capire. A cosa si stava riferendo? Forse aveva visto uno dei suoi movimenti da seduttore, quelli che gli venivano spontanei ogni tanto. In quel mondo, probabilmente, avrebbe dovuto cambiarli. Chissà se le ragazze di... Flesra assomigliavano a quelle della Terra.

«Boh. Comunque intendevo che della mia famiglia non mi manca nessuno. Insomma, mio padre è morto quando avevo dieci anni, mia madre è un'alcolizzata di merda che ritorna a casa una volta alla settimana se va bene, e mia sorella è qualcosa di giorno e una puttana, nel vero senso della parola, di notte. Avevo una ragazza, ma l'ho tradita e ieri mi ha lasciato. Tanto è una zoccola pure lei. Poco ci manca che non la dia per soldi pure lei. Quindi, chi in un modo chi in un altro, tutti ci hanno guadagnato con la mia scomparsa. Io compreso. Almeno spero.»

«Non eri messo bene, eh?»

«Affatto, bello.»

Ancora silenzio. Refoli soffiavano producendo fischi e ululati. Qualcuno bussò al portone in legno disotto. Nathair lo sentì benissimo. Cardmis pure, a quanto parve. Gli fece segno di rimanere lì mentre lui andava ad aprire. Ma non ce ne sarebbe stato bisogno: Cardmis sapeva fin troppo bene che Nathair non si sarebbe mosso per nulla al mondo. Sì, è vero, la sua vita era una merda; ma un cambio di pianeta non poteva essere affrontato con tanta leggerezza. La voce della moglie dell'omone, una donna altrettanto imponente secondo gli standard che Nathair aveva in mente, risuonò dal fondo delle scale; la porta aperta che rendeva nitido ogni suono. Poi Cardmis iniziò a parlare in Flesremu.

Dark DawnWhere stories live. Discover now