Capitolo XIII

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Rivelazione

Raccontato da: Reck. 


Le immagini si sovrapponevano nella sua mente. Due, tre, quattro, un corteo di pallidi e ondeggianti veli colorati. Tele da riempire, teatri asfissiati dal sangue nebbioso nella sua mente. Ripercorrevano ciò che era accaduto dopo che aveva deciso di andarsene. Il saluto alla terra che aveva accolto per ultima la grazia di Nimniail, e poi era partito. Aveva preso le borse e messo quella con la testa di Brenin davanti a tutte. Poi era passato vicino al campo, a una distanza tale che le guardie non lo vedessero ma che potessero trovare i resti di quell'imperatore che aveva profanato la grandiosità dei suoi predecessori. Il sogno continuava. Aveva posato la testa a terra, senza emettere un rumore, nemmeno un verso per liberarsi del dolore di cui ormai era intriso. Aveva sentito il battito accelerare e il cuore stesso tremare. Allora era sceso da cavallo, aveva preso la sua spada e l'aveva conficcata nel terreno, accanto a ciò che rimaneva di Brenin. Sapeva che avrebbero capito, così come sapeva che sarebbero andati a cercarlo e avrebbero trovato la tenda e il suolo attorno a essa sporco del sangue delle persone che avevano segnato quel giorno fatale. Era quello che aveva voluto, che voleva ancora e che avrebbe sempre voluto. Non gli importava del crimine commesso, delle conseguenze, delle fughe che avrebbe dovuto affrontare. E un giorno avrebbe ottenuto la sua vendetta pienamente. Avrebbe ucciso tutti i membri della famiglia imperiale.

Pensò questo quando Uhusyan lo colpì con i suoi raggi. I suoi occhi si aprirono come sipari sollevati da attori stanchi e demoralizzati. Scattò di lato, il capo alto a sondare i dintorni alla ricerca di qualcosa. Un rumore lo aveva destato. Ora se lo ricordava, e lo aveva sentito nuovamente. Portò una mano alla spada che aveva rubato dal cadavere di un soldato e si alzò in piedi adagio, soppesando la consistenza dell'aria. Il vento solleticava le foglie degli alberi circostanti, piccole zampe sfioravano l'erba, i rintocchi della rugiada che cascava da una pianta. Nient'altro.

Reck si sedette. Era stato un falso allarme. Nulla di fatto. Prese il bracciale di Nimniail e sospirò. Chiuse gli occhi e li tenne così, serrati con violenza, quasi non volesse riaprirli più. Percepiva il materiale metallico, l'incontro tra di esso e la sua pelle fu pungente. Non ci riuscì. Lo gettò via in un impeto d'ira, maledicendo se stesso per non essere in grado di guardare uno stupido bracciale. Si sentiva un incapace. Non avrebbe mai capito perché Jake era uscito da là e non dalla pergamena.

Improvvisamente vide qualcosa di strano. Si rialzò e acuì lo sguardo per assicurarsi di non essere preda di qualche meschino scherzo del proprio corpo. Su un albero lontano c'era una scritta, non la stava sognando. Rune, per la precisione. Dinmiche. Si avvicinò per leggere, e quando riuscì a decifrare cosa c'era scritto, lesse la parola: sert. Deserto. Gli venne naturale chiedersi perché quella parola fosse proprio là, in mezzo a una foresta. Raccolse la propria roba e montò in sella al cavallo che aveva portato con sé. Sentiva che c'era qualcosa di più profondo dietro quelle quattro rune. E forse aveva ragione.

Una seconda scritta, infatti, apparve poco più in là. Scora. Il tempo. E una terza: flaira. Un fiore. Si avvicinò a entrambe e le sfiorò. Poi notò qualcosa: i tre alberi che le ospitavano formavano un triangolo rettangolo fra di loro. E si ricordò qualcosa. Una frase sepolta nei cumuli della sua memoria. Gliela aveva detta sua madre quando lui aveva circa sei anni. Il fiore del tempo è la vita nel deserto. Era una massima di un filosofo vissuto due migliaia di anni prima o forse più e a lei piaceva molto ripetergliela. Sosteneva che fosse ciò che rappresentava meglio la missione dell'uomo nel mondo. Lui non aveva mai capito cosa intendesse e non gli era mai interessato più di tanto. A sei anni non cerchi di comprendere frasi filosofiche.

Dark DawnWhere stories live. Discover now